Archivi categoria: meditabondazioni

Noi che spaliamo acqua

Noi che spaliamo acqua siamo una razza paziente. Puliamo le pompe e i pozzetti, chiudiamo scrupolosamente le finestre quando il cielo si fa scuro di nubi, quando sentiamo scrosciare la pioggia fitta scendiamo in cantina a verificare che tutto sia in ordine.

Ma non sempre tutto è in ordine. Non sempre l’ordine basta. A volte la pompa non parte, o si ferma, o si intasa. Altre volte dal cielo scende un diluvio che riempie i pozzetti e trabocca, un’onda schiumosa che invade quanto sta in basso. Accade, una, due, dieci volte all’anno. Una volta spalai incessantemente per ventiquattr’ore filate, mentre i tombini eruttavano fontane restituendo quanto non riuscivano a ingoiare. Più modestamente, l’altra sera per due volte pioggia e grandine come ciliegie sono scesi con forza tale da saturare la capacità della pompa. Cinque minuti in cui io, scoperchiata la grata, riempivo ogni trenta secondi un secchio e lo buttavo fuori cercando di andare più veloce delle gocce. Ho limitato i danni, ma ho tutti i muscoli doloranti. Non sono più così giovane.

Si fa quel che si può. Non sono cambiamenti climatici, non è cementificazione. Puoi progettare cosa vuoi, certo limitare i danni, ma la pioggia ci tiene a ricordare a noi che non la possiamo fermare, solo ripararci da essa. Lasciarla scorrere, impedire che distrugga tutto, per quel che possiamo. Stare vigili, cercando di capire se questa volta basteranno le nostre difese o dovremo spalare.
Tenere la pala, il secchio pronto.

Antimissionari

Se nell’antichità i missionari cristiani viaggiavano per terre conosciute e sconosciute per portare il Vangelo, da un paio di secoli stiamo assistendo al fenomeno opposto. Spesso finanziati dal potente di turno, gli antimissionari girano il mondo per cercare di sradicare la fede cristiana. Il primo esempio eclatante furono gli eserciti napoleonici, risoluti a esportare l’ateismo della Rivoluzione francese in tutta Europa, e oltre, in punta di baionetta. Nel secolo seguente ci pensò la massoneria con i suoi moti “popolari”, così come “popolari” furono le prese di potere naziste e comuniste che in quanto a propaganda anticristiana non furono secondi a nessuno.

Se il nazismo è defunto e il comunismo si è dissolto, ciò non vuole dire che le antimissioni abbiano smesso di agire. Anzi: sono più forti che mai, agiscono globalmente, poiché i loro mandanti posseggono il dominio quasi incontrastato dei media.

Così Francia, Canada, Stati Uniti, Regno Unito e via andare non fanno troppo mistero del fatto che vorrebbero vedere la religione cristiana sparire dalla faccia della terra; se non con le parole, con i fatti. La chiamano diplomazia culturale: ogni diritto è difeso, tranne quello religioso, ogni opinione lecita, salvo quella cristiana. Curiosamente, o non troppo, queste politiche sono sostenute finanziariamente dalle agenzie di propaganda del Partito Comunista Cinese. Non sono così convinto che la loro fonte ultima sia la Cina. I cinesi, semplicemente, concordano che ciò sia utile ai loro fini. Cosa che dovrebbe fare riflettere persino i francesi.
La Cina non fa che assecondare la pulsione suicida del suo nemico. Ma l’Occidente si è già incamminato autonomamente da un pezzo verso la sua fine.

I comunisti non sono i soli a trovare interessante questa autodistruzione: essa è pure sostenuta fondi d’investimento islamici.
Uno chiede, ma perché gli islamici radicali finanziano gente che se venisse nel loro paese finirebbe impiccata per blasfemia oppure omosessualità?
La risposta è semplice, se il tuo nemico vuole impiccarsi, passagli lo sgabello. E non è la sola ragione: in tal modo l’Occidente può continuare ad essere il nemico.
Avere un nemico rafforza, permette di chiedere e acquisire potere, come una profezia che si autorealizza. Se poi quel nemico perde anche il senso del vivere e quindi la ragione per combattere, sono soldi ben spesi.

Nell’unirsi di tutte queste forze così differenti tra loro per un unico fine si potrebbe vedere lo zampino del demonio, ansioso di abolire Cristo sulla terra ma, a parte in questo blog, chi lo considera più? Gli antimissionari hanno fatto il loro lavoro.

Gatti vandalici

Arrivo, stanco, mentre cerco di pensare al post di oggi. Ho ancora qualche bozza da parte? Entro nella stanza e lei è là.
E’ arrotolata sulla mia sedia come fosse il posto più delizioso del mondo, gli occhi chiusi, il corpo che si muove appena. Accidenti.
La mia gatta si chiama Birba per un motivo. Non è più il peperino impestato di quando era giovane, adesso si muove con l’autorità di una regina a cui tutto deve essere concesso, anche occupare la poltrona del suo padrone. Quella che dovrei usare per lavorare.

Mi avvicino, l’accarezzo lievemente. Lei gradisce. Dopo un poco comincia a fare le fusa, senza muoversi di un millimetro. Provo a spingerla un poco.
Lei prova a mordermi. E’ chiaramente un’azione dimostrativa, quindi non prosegue dopo che il suo attacco è andato a vuoto, riassumendo la posizione a palla di pelo. Se non avessi buoni riflessi probabilmente la dimostrazione avrebbe comportato il segno dei denti.
Provo ancora a stimolarla ad andarsene. Questa volta è la zampa artigliata a scattare.
Va bene, va bene. Sposto la poltrona, prendo una sedia. Lei dorme imperterrita. La sedia sostitutiva è antica, sfondata, scomodissima. Lei comincia a russare lievemente.

Rimango sul precario sedile di fortuna fino all’arrivo di mia figlia. Che entra nella stanza e immediatamente saluta, bacia e accarezza la gatta, ignorandomi del tutto. Sospiro; se non altro Birba si sveglia, si stira, fa toeletta e alla fine termina l’occupazione. Rapido come la folgore, m’impossesso della posizione abbandonata. Lei mi guarda con un misto di disprezzo ed esasperazione, poi inizia a strusciarsi. Miao, miao. Voglio buon cibo, umano. Altrimenti…
Quando non viene accontentata questa piccola dittatrice suole ricorrere a mezzi estremi, come far cadere oggetti, smontare pezzi di cucina, leggeri danni fisici. Eppure se la cava sempre, perché è piccola, morbida, pelosa, fotogenica. Così va il mondo, miao miao.

L’argine

Chesterton è una miniera di citazioni che invitano al pensiero, accessorio raro in questo tempo in cui si reclama il diritto a essere illogici. In uno dei suoi scritti sostiene che se credessimo veramente al nichilismo “gli assassini riceverebbero medaglie perché salvano gli uomini dalla vita; i vigili del fuoco verrebbero denunciati perché li sottraggono alla morte; useremmo i veleni come medicine e chiameremmo il dottore quando siamo in buona salute”.
Mi colpiva il fatto che tutte queste circostanze che cent’anni fa apparivano assurde, dato che fanno a pugni con il buon senso, oggi si realizzano. Si premiano assassini e si contesta e castiga chi si oppone alla morte. Gli si impedisce di parlare, viene cacciato e perseguitato; i capi delle nazioni, chi gestisce le opinioni e persino le leggi incoraggiano chi cura il proprio male di vivere con il veleno, con la devastazione del proprio corpo sano.

Quindi davvero ora crediamo al nichilismo, per cui nulla è vero, nulla vale? Non è proprio così: i nichilisti di oggi negano di essere tali e si giustificano paradossalmente con i valori. Tolgono la vita perché la vita sia degna, dove con degna intendono “degna di essere sfruttata”. La distruzione del proprio fisico è motivata dal dare valore al proprio desiderio o illusione sopra ciò che è la realtà. Mentre il nichilismo originario bramava la distruzione dell’ordine costituito, quello odierno è sponsorizzato e mantenuto proprio da quell’ordine. Quando il nulla è scatenato tra gli uomini, è il più forte che vince. Questo il potente lo sa bene.

Poi accade qualcosa, un amore, un’alluvione, una guerra, e improvvisamente ciò che sembrava pallido e inesistente si concretizza, il reale urla il proprio senso, o almeno la necessità di averne uno. La verità delle cose fa irruzione come un fiume che rompe l’argine, travolgendo le menzogne, cogliendoci impreparati nelle case di fumo e carta che credevamo sicure.
Quando si asciugherà la terra sapremo ancora vedere quanto è vero, rifiutare quel nulla tracotante che vuole farci smettere di essere? Ci vorrebbe qualcosa di reale a cui appoggiarsi, un punto solido che non può essere sovrascritto, che non cede all’illusione di ciò che non è, alla illogicità di noi uomini.

Folla di fratelli

Sì, ero al Salone del libro, sabato, a presentare la mia ultima fatica. Lo dico subito: non ho assistito alla contestazione. Mea culpa, non sapevo venisse la Roccella – che conobbi parecchi anni fa a Bologna, mangiammo assieme – in quell’istante mi trovavo dalla parte opposta della manifestazione, a un chilometro buono tra folle oceaniche che manco si riusciva a camminare.

Non so di coloro che erano lì al Salone quanti se ne siano accorti, io cosa sia avvenuto l’ho scoperto la sera, tornato a casa. Cosa ne abbiano pensato. Lo scrivere è in funzione del leggere: idee che si espandono oltre il cerchio d’onda del suono. Quando si cerca di impedire questa espansione in qualche modo ci si mette contro il concetto di scrittura stessa. Non solo si è estranei alla comunità dei lettori, chiusi nella propria idea, impermeabili a ciò che potrebbe cambiarla: si vuole rinchiudere anche gli altri, renderli miserabili alla stessa maniera. Ce n’è di gente così, ne conosco; ma non credo l’altro ieri fossero ce ne fossero molti tra la folla.

Perché, come discutevo con una persona per caso accanto in metro recandomi laggiù, lì si è in qualche maniera parte della stessa famiglia, uniti dall’amore per la parola scritta. Ci si riconosce a pelle, si discute con perfetti sconosciuti di grandi temi e di piccolezze, riconoscendo nell’altro un lettore, un simile, un fratello.

Quanta gente ho incontrato, l’inizio di una amicizia o che magari non vedrò più in vita mia. Scherzavo con alcuni di loro che, visto la quantità di opere presenti, queste fiumane di gente fossero tutte composte di autori ma di pochi lettori. Non mi stupirebbe più di tanto apprendere di avere ragione, perché quanti di noi non hanno un libro segreto, scritto o non scritto, nel cuore? Davvero, credetemi, le vorrei leggere tutte quelle opere. Come quando entro in un negozio che vende cioccolato, che tutto vorrei divorare se avessi il fisico, il tempo, le sostanze, finendo poi per prendere una sola tavoletta. Realismo: ho molti più libri già ora di quanto riuscirò mai a leggere prima che la mia luce si spenga. La vita è fatta di scelte.

Anche quest’anno sono uscito dal Salone con riluttanza, dovevo tornare a casa. Stanco morto, ma con lo spirito che correva allegro e veloce come accade dopo le belle esperienze. Quante cose non ho veduto, quanti non ho incontrato; quanto ho visto, quanto ho incontrato di questa bella famiglia sui generis che ama ciò che è scritto e ciò che è detto, da cui è escluso solo chi chiude le proprie porte, i propri occhi, il proprio cuore.

Il pendolo

Qualche tempo fa avevo pensato di dedicare una serie di post a quelle parole magiche che ci vengono inflitte da ogni parte, a cui dobbiamo adeguarci pena l’esclusione dal consesso degli illuminati, di coloro che dicono di contestare il sistema ma che sono il sistema, coloro da cui non permesso dissentire. Impresa improba, perché queste parole d’ordine e disordine mutano più in fretta di un coronavirus.

Prendiamo ad esempio “globalizzazione”. Fino a ieri rappresentava il destino ineluttabile che ci attendeva, a meno che non avessero avuto la meglio le bieche forze della reazione; quelle intente ad alzare muri e negare le magnifiche sorti progressive dell’uomo.
Oggi, più nessuno ne parla. Si scavano trincee e si guarda con sospetto il proprio vicino. Lo straniero è diventato una minaccia, il confine qualcosa di sacro e inviolabile.
Quella parola ha cessato di essere utile. Il pendolo oscilla in direzione opposta, ipnotico.
E lo sguardo lo segue.

L’ombra che proiettiamo

L’idolatria si realizza non solamente innalzando falsi dei, ma anche innalzando falsi demoni; con il rendere gli uomini paurosi della guerra o dell’alcol o delle leggi economiche, quando dovrebbero avere paura della corruzione spirituale e della codardia.
G.K. Chesterton

Qualche volta penso che perdiamo il nostro tempo a combattere il male. Scendendo in battaglia contro di lui gli diamo dignità, spessore; è come se dicessimo che è un’entità, qualcosa di positivo, mentre non è che un negativo: l’assenza di bene.

Badate, non sto negando che esso esista, o asserendo che non sia poi così pericoloso. Sto dicendo che rischiamo di combattere le ombre quando invece dovremmo espandere la luce.

Battersi contro il male, come contro il buio, è difficile. Non è qualcosa di solido, di davvero esistente: è non essere ciò che dovremmo essere. Noi stessi proiettiamo un’ombra.

Se il mio reame fossero le tenebre, vi attirerei i guerrieri più ardimentosi, convinti di poter vincere l’oscurità con la forza, l’astuzia, l’intelligenza e la ragione. Proietterei sagome di mostri per chiamare alla battaglia. Farei in modo che dimentichino di portare con loro le lampade, o ciò che può alimentarle.

Perché in fondo è questo il male. L’illusione che il bene non sia necessario per vincere.

2b||!2b

La scienza funziona a modelli. Un modello semplifica la realtà, ne è in qualche modo una descrizione. Se posso scrivere questo post è proprio grazie alle approssimazioni matematiche di strutture molto complicate, onde, campi, circuiti: si trasforma ciò che è complesso in qualcosa di più semplice.

Questo approccio, se rende possibile la scienza, ha però gravi difetti. Più si semplifica il reale più si eliminano aspetti che potrebbero esserne fondamentali: cadono fuori dal nostro campo visivo, si trascurano quando magari sarebbero vitali da conoscere. La nostra cultura si incentra sul come e sul quanto, ma trascura il perché. Lo proclama senza senso, perché ne ha timore. Si ha sempre paura di ciò che non si conosce. Il perché non può reggersi su una semplificazione: vuole l’universo tutto intero. La risposta a perché vivere non si può ridurre a un particolare senza che la domanda stessa perda senso. La scelta tra essere e non essere deve fondarsi su una integralità o diviene certamente errata.

Le funzioni approssimate funzionano bene nei pressi del punto di esame, ma andando verso l’infinito sono sempre più distanti da ciò che vorrebbero imitare. Anche l’uomo, quando si dirige verso l’infinito, non può essere meno di se stesso.

PS: il titolo è, in linguaggio C, To be or not to be, essere o non essere

***
Sabato 20 maggio sarò al Salone del Libro. Alle 11.15 avrò un’intervista allo stand dell’editrice Echos, padiglione 3 R69-71. Per il resto della giornata sarò lì nei pressi, quindi se mi cercate recatevi lì e se non ci sono chiedete che mi chiamino.

Quando il domani è ieri

Io appartengo un’epoca pionieristica, ormai sepolta negli abissi del passato. Erano i giorni dei primi personal computer, in cui si passava dai nastri perforati ai supporti magnetici, i famosi e famigerati floppy disk. All’inizio questi erano padelloni neri quadrati da otto pollici, venti centimetri di lato; successivamente arrivarono quelli più piccoli da 5 pollici e un quarto, seguiti da quelli corazzati da 3 e mezzo, nove centimetri circa. Da qualche parte in cantina ne ho ancora scatole piene; mi rammento bene le pile di decine di quei mostri da infilare uno dopo l’altro nell’apposita fessura, lo scatto dei blocchi, l’infausto grattare. Come per il suono della connessione dei vecchi modem, sono dei rumori scolpiti per sempre nelle nostre coscienze.

Il mio primo computer serio, un M24 Olivetti, poteva ospitare due espansioni. Una era ovviamente il lettore floppy, da cui si caricavano i programmi e il sistema operativo. Per la seconda posizione si poteva scegliere un hard disk delle dimensioni di ben 10 Megabyte. Preferii un secondo lettore floppy, molto più utile. A che serve un hard disk, dopotutto, se puoi caricare da dischetto?

In anni più recenti i file sono stati ospitati da CD prima e DVD poi. Vi ricordate di “Ritorno al futuro 2”? In una scena ambientata in quel futuro (2015) che per noi è ormai passato, si nota un vicolo pieno di casse di dischi laser, che nel 1989 erano la novità, gettati nell’immondizia. Me ne sono ricordato ora che sto faticosamente riversando su hard disk esterni il contenuto delle mie centinaia di DVD. Il computer che sto acquistando per sostituire il mio ormai decrepito cassone non possiederà un lettore, e i loro contenuti non saranno più fruibili. Non avrà neanche un hard disk di tipo tradizionale, sostituito dai molto più rapidi e sicuri dischi a stato solido (SSD), ormai scesi a prezzi accettabili.

Eppure ancora adesso all’interno dei programmi, quando sono presenti icone per designare salvataggio e caricamento di file, spesso esse raffigurano proprio quei floppy spariti dall’uso da decenni, entità sconosciute ai giovani d’oggi.
Mi sento solidale con quegli antichi oggetti carichi di conoscenze e dati che più nessuno riesce a leggere, con cui nessuno riesce più a comunicare perché il tempo li ha messi da parte; abbandonati ai lati della strada come poltrone usurate o cani troppo vecchi, di cui non si sa più che farsene. Come accade a tutto ciò che oggi è nuovo, fino a che arriverà anche il suo domani.

Una storia d’amore

Sono incappato oggi in una citazione di Chesterton che, come spesso accade con quest’autore, centra perfettamente un punto che rischia di sfuggirci.

Non puoi amare una cosa senza voler combattere per essa. Non puoi combattere senza qualcosa per cui combattere. Amare qualcosa senza desiderare di combattere per essa non è per niente amore; è lussuria. Può essere una lussuria ariosa, filosofica e disinteressata; può essere, così per dire, una lussuria verginale; ma è lussuria, perché è interamente autoindulgente e non invita all’attacco. D’altra parte, combattere per qualcosa senza amarla non è nemmeno combattere; può essere solo chiamato un tipo di svago che a volte è fatale. Ogni volta che la natura umana è umana e non viziata da qualche speciale sofisma, c’è una naturale parentela tra guerra e corteggiamento, e quella naturale parentela è chiamata storia d’amore.

G.K. Chesterton, Charles Dickens: A Critical Study

Pensavo a questo in connessione con quella frase evangelica sui pastori mercenari, che se la filano piuttosto che affrontare i lupi. Quando evitiamo di esporci per non subire conseguenze, quando scegliamo di tacere invece di combattere ove potremmo, allora vuol dire che teniamo più ad altro che a ciò che dovremmo difendere. Che il nostro non è amore per Cristo, ma lussuria per il cristianesimo: da usare quando ci aggrada, dimenticare quando diventa svantaggioso.

Certo, ci sono certe battaglie che è impossibile vincere, ma non dimentichiamo che non possiamo avere la meglio in nessuna guerra con le sole nostre forze, occorre che Qualcuno lotti assieme a noi. Ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio. In ogni caso, difficilmente chi fugge può trionfare.
Chi fugge, o si arrende al nemico senza combattere, forse non ama abbastanza.

Mostruosità marine

Parliamo ancora di film. Lo sapete, io ho una predilezione per quelli di animazione. Dei candidati agli Oscar nel genere di quest’anno non conoscevo “Il Mostro dei Mari“; dai trailer sembrava decente, così ieri sera me lo sono guardato.
La vicenda è accattivante: navi di cacciatori di mostri che ricordano i bucanieri solcano l’oceano combattendo una guerra mortale contro mostruose creature marine. Un’orfana sogna di diventare anche lei cacciatrice e si imbarca di nascosto sulla più famosa di queste navi.
E fin qui tutto bene. Il livello tecnico è più che notevole, l’animazione ricca e fluida, i dialoghi spumeggianti, i personaggi ben caratterizzati. Essendo una produzione Netflix c’è l’usuale mischione di razze, ma non infastidisce. Infastidisce invece un po’ il doppiaggio italiano, specie quello del capitano Crow che è disegnato come un tozzo incrocio tra il capitano Achab di melvilliana memoria e il Grinta di John Wayne, ma a cui Diego Abatantuono regala una vocina del tutto inadatta.

I guai cominciano quando i nostri eroi incontrano il “mostro cattivo” Furia Rossa, una sorta di balenona scarlatta che dovrebbe essere il Moby Dick locale. Lo guardo, noto che ha gli occhi del drago “Furia oscura” Sdentato di “Dragon trainer” e comprendo subito il resto della trama. Non mi sbaglio. Quello che poteva essere un buon film di avventura diventa un pippone moralistico sul cattivo re che ha fabbricato la storia dei mostri per suo guadagno, mentre il titano rosso non mangia i bambini, è buono e vuole il bene di tutti.

Ora cos’è rosso, è diffamato dal patriarcato borghese monarchico e capitalistico mentre non vorrebbe altro che la pace nel mondo, ottenibile solo se il pueblo unido insorge contro i tiranni? No, non rispondete.

Ci si lamentava dei film di propaganda del secolo scorso, qui abbiamo un elefante nella stanza che, stranamente, nessuno dei commentatori che ho letto sembra avere notato. E la domanda che mi pongo è, ci è o ci fanno?
E ho anche un secondo dubbio. Nel film non sembrano esserci i consueti ammiccamenti omo, almeno espliciti. Ma una cosa mi inquieta: alla fine i due protagonisti vanno a vivere insieme, in quello che potrebbe essere un idilliaco rapporto padre-figlia. Ma a occhio hanno circa dieci-dodici e venticinque-trent’anni, e il loro battibecco continuo sembra essere più quello tra marito e moglie che altro. Un certo disagio ce l’ho, ma che volete, forse dovrei vivere più rilassato, non farmi venire idee strane ed evitare di pensare troppo, capire troppo, voler comprendere le cose come stanno.

I racconti non finiscono

Non so se voi, da bambini, inventavate storie. Se vi fabbricavate avventure con protagonista il vostro giocattolo preferito, o un eroe reale oppure fittizio. Se passavate i pomeriggi a disegnare mondi per poi esplorarli. Se pensavate leggende, costruivate teogonie segrete, progettavate mostri e storie di altre ere.
Io sì. A lezione guardavo fuori dalla finestra dentro altri cieli, quando non li disegnavo sul libro o sul banco. La situazione crescendo non è migliorata, si è solo fatta più complessa e dettagliata. La creazione di mondi è sempre stata la mia passione.

Non si possono costruire mondi credibili se non si è ancorati al mondo reale. Faerie, la terra delle fate, se non confinasse con il nostro mondo si perderebbe nelle nebbie dell’inconoscibile. L’esploratore di quelle lande sa bene che se perdesse la strada per tornare incontrerebbe la propria fine. Però i sentieri dell’immaginazione sono tanti, si intersecano tra di loro e vanno avanti, oltre il cammino che siamo disposti a percorrere nel nostro giorno. Quando il sole è basso e le ombre si allungano occorre valutare se proseguire in terre sconosciute e rischiare il buio della notte oppure arrestarsi, e continuare in un altro domani.

Alla conclusione del mio primo libro scrivevo queste parole:

“Allora, che ne dici del libro?” chiese il vecchio.
La ragazza si stirò. “Uhm. E’ una storia che non ci avevi mai raccontato per intero. Diciamo che, nel suo genere, non è così male.”
“A-ah! Allora ti è piaciuto!” Gli occhi di lui brillavano divertiti.
“Però” disse la ragazza alzando un dito, “Hai lasciato fuori un sacco di roba. (…) La storia di Van, poi, finisce così?”
“Cara, la storia di nessun essere umano è mai veramente finita. Gli dei? Meno se ne parla dei loro passatempi meglio è. Quanto al non avere detto ogni cosa, hai ragione. Ma qualunque narrazione lascia sempre fuori degli episodi. Nessun racconto può essere mai del tutto completo, in ogni particolare. Ce n’è uno solo che è così, e si chiama realtà.”

…che rimangono vere. Più una storia è ricca, più un personaggio è definito, più la sua vicenda diventa complessa e impossibile da narrare per intero. L’autore sa di episodi non raccontati, di desideri e parole taciute, di retroscena che rimangono dentro di lui. Del fiume vediamo le acque, ma non le sotterranee sorgenti. Va fatta una scelta, spesso penosa, su cosa viene detto e cosa viene taciuto.

Per questo, in fondo, esistono i seguiti. Per chi non è sazio di racconti.


*****

Come promesso, qui troverete il link a un racconto che approfondisce alcuni retroscena del libro “L’ombra della Minaccia“, spiegando l’origine dell’odio che esiste tra due dei suoi personaggi. Sebbene sia autonomo come trama e non contenga spoiler, suggerisco di leggerlo solo dopo che avrete terminato il libro o, comunque, le sue due prime parti.

*****

Questo venerdì 12 maggio terrò una presentazione del mio libro a Torino. Chi volesse intervenire potrà conoscermi e scambiare due chiacchere.

Estrazioni

C’è chi nelle estrazioni è fortunato; io no. Così ieri sera mi hanno massacrato per una buona ora prima di riuscire a levarmi un dente che avrebbe dovuto essere debole e fragile. Un accidente, manco fosse stato un molare di Godzilla. Da un certo punto di vista mi fa piacere che i miei denti siano così attaccati a me da non volermi mollare; dall’altro speravo in un addio meno traumatico, senza piede di porco e fresa. Ad un certo punto sono dovuti persino andare a chiamare il vecchio maestro, come nei film cinesi anni ’70 quando il cattivo ha spazzato via tutti gli allievi. In ogni caso ne sono uscito, anche se a distanza di ventiquattr’ore mi sento ancora abbastanza instabile. In fondo è un pezzo di me che se ne è andato, e mi fa strano. Mi viene da pensare che prima o poi anche gli altri frammenti del mio corpo mi abbandoneranno uno a uno, come impiegati di un’azienda fallimentare. Già ci sono avvisaglie dell’esodo. Immagino sia questa la nostra sorte di mortali, fino a quando non saremo noi stessi a lasciare indietro quanto resta della nostra materialità per riottenerla, si spera, nuova.
Sulla mia gengiva c’è un buco e un dolore sordo. Chissà se sentiremo la mancanza di noi stessi, o sarà come ritrovare tutto ciò che avevamo perduto.

Tra stupore e orrore

Il dilagare della cosiddetta intelligenza artificiale con le immagini e i video da lei prodotti evidenziano un particolare al quale di solito non facciamo caso. Il fatto che per quanto assurdo e distorto sia quello che vediamo, rimane il prodotto di qualcosa di intellegibile, a sua volta intellegibile anche nella sua assurdità.

Le case si metamorfano in auto, ma sappiamo cos’è un auto e cos’è una casa; così, anche se mutano in qualcosa di non descrivibile, ci accorgiamo che è tale perché non rientra nelle nostre categorie esistenti e ce lo infiliamo. Possiamo rimanere stupiti per un attimo, ma poi ci adattiamo a ciò che ci era sconosciuto. Tanto più perché l’incognito che ci viene presentato non è qualcosa di avulso dal reale, ma la mutazione e la somma di esistenti, come nei dipinti di Hyeronimus Bosch. Gli uomini dalla testa di pesce sono sgamati da mezzo millennio, e Dalì ce ne ha rinfrescato la memoria.

Lo stupore nasce dall’inatteso, da ciò che ancora non rientra nella nostra esperienza. La capacità di stupirsi è fondamentale se si vuole crescere. Non si stupisce solo chi non è in attesa di niente e crede di sapere tutto, incapace quindi di evolvere, di cambiare.
Bisogna fare attenzione solo che lo stupore non si trasformi in orrore. L’orrore è lo stupore di qualcosa che ci minaccia, invece di essere buono. E’ il terrore che sorge dall’anti-dio, è l’emergere di un male che non era nella nostra esperienza.

Lo stupore per le “opere” delle AI è presto superato e subentra la noia, perché esse non sono che la ripetizione e l’alterazione di ciò che esiste, sono realtà sotto anfetamine. L’autentico stupore giunge dalla creazione, da ciò che prima non c’era e adesso c’è, dalla novità. Appannaggio di Dio e degli umani, almeno fino a quando le macchine non diventeranno intelligenti davvero.

Dei senza amore

Quando, ormai diversi anni fa, ho cominciato a scrivere il mio primo romanzo “Il tempo degli dei”, uno dei temi che volevo approfondire era il seguente: esseri le cui capacità rasentano l’onnipotenza possono volontariamente limitarsi? La mia risposta, allora come adesso, è “no, se non pensano che esista qualcosa di superiore a cui loro stessi debbano rendere conto”.

Autodefinirsi un dio, pensare di essere un dio è lo stadio finale. Non è necessario andare fino in fondo; ci si può fermare, ai fini della nostra discussione, anche prima, al credere di avere sempre ragione. Piccoli passi, piccoli passi.

Se abbiamo questa convinzione allora qualsiasi cosa noi decidiamo non possiamo sbagliare. Fosse anche questa decisione la distruzione di quelli che consideriamo essere inferiori, o non-esseri. Se noi abbiamo sempre ragione essi sono superflui, non importanti. Possiamo disporre di essi come meglio vogliamo. Siano essi di razza diversa, di religione o convinzioni politiche che non approviamo, non ancora nati o quasi morti, persone qualsiasi ma non-noi.

Cosa ci può trattenere dal distruggerli, dal giocare con la loro esistenza senza alcun riguardo, solo perché possiamo farlo? Una possibilità è che, essendo esse nostre creature, teniamo a loro come si tiene alla propria collezione di libri o di dischi. Amarli come oggetti, fino a che non ci vengano a noia.

Oppure possiamo amarli per quello che sono. Questo però pone un limite alla nostra onnipotenza, perché limita le nostre opzioni, traccia una linea oltre la quale non possiamo andare. Se si ama qualcosa o qualcuno, non tutto quello che possiamo pensare per loro rimane accettabile. Concediamo loro una dignità che non possiamo ignorare. Il corso d’azione che decidiamo viene incanalato dal fatto che esiste un’entità esterna a cui dobbiamo provvedere, di cui dobbiamo tenere conto perché non é un oggetto. Amore e dovere in questo senso sono intrinsecamente connessi. L’amore è il riconoscimento che esiste qualcosa che ci può limitare.

Ma noi esseri umani siamo davvero capaci di amare al punto da sacrificare noi stessi, la nostra presunzione?

Nel romanzo di cui sopra ho cominciato a sviluppare il tema, indagando il soggetto. Giunto al termine della sua stesura, però, mi sono reso conto che avevo appena sfiorato l’argomento. Non avevo davvero approfondito a cosa possa arrivare, a cosa si possa spingere un essere che dispone dei poteri di creare e distruggere a piacimento, in grado di esercitare un dominio assoluto su persone e cose.

Il libro che ho appena pubblicato, “L’ombra della Minaccia“, esplora più a fondo questo interrogativo. In un certo senso scriverlo è stato l’equivalente di sviluppare le mie “Lettere di Berlicche”: calarsi nella mente di un personaggio che è convinto di possedere le chiavi del bene e del male e persuaso che ogni cosa sia a disposizione del suo egoismo.
Quello con il diavolo non è un paragone casuale. Chi si considera un dio e agisce come tale senza esserlo, di fatto è un demone che nega la realtà. I risultati non possono essere che morte, dolore e distruzione; il concretizzarsi del male.

Per liberarsi dai vincoli loro imposti gli dei del mio romanzo utilizzano la forza e la menzogna, perché se non c’è nessuno a cui rendere conto questi non sono che strumenti a loro disposizione. Non c’è un giudizio che possano temere.

Man mano che scrivevo, scendendo in questo abisso, di una cosa mi accorgevo: che potevo scorgere l’eco di simili pretese anche nella nostra stessa realtà. Cioè che anche in questo nostro mondo potrebbero esserci degli esseri che nel loro delirio di onnipotenza agiscono sulle persone tramite forza e menzogna. Dei senza amore.

E pensavo: che differenza con un Dio che invece ama.

La legge irreale

Quello che si insegna a scuola oggi spesso è vecchio di un secolo. Sono le idee e le convinzioni innovative di gente morta da decenni, gente che ha insegnato a persone che sono ora in pensione che a loro volta hanno passato le loro conoscenze agli attuali professori, così come si passa una reliquia degli avi, da non mettere in discussione. I quali professori magari non si rendono neanche conto che il mondo è andato avanti, che certe teorie sono state sconfessate mentre continuano ad insegnarle credendo di essere all’avanguardia. Il sessantotto eterno, il conformismo dell’anticonformista di professione che non si fa domande perché é convinto di avere le risposte.

Così si perpetuano le balle sul medioevo età tenebrosa, si dà per scontato che il comunismo abbia ancora una qualsivoglia credibilità e si continua a sostenere che il darwinismo spiega perfettamente l’evoluzione. Prendiamo la fisica: ancora ci fanno una capa così con la dualità onda-corpuscolo, roba di cent’anni fa, tanto che alla fine il povero allievo tende quasi a credere che il fotone abbia un’intelligenza sua. Eppure il buon Feynman ha tirato fuori i suoi integrali dei cammini già nel 1948, i quali spiegano perfettamente il problema della doppia fenditura, annessi e connessi, rendendo comprensibili buona parte dei paradossi della fisica quantistica. Ne avete sentito parlare a scuola, voi? No?

Si ripete un sapere bolso, privato di meraviglia e immaginazione. Si insegnano leggi fisiche e filosofiche dando per scontato che siano la realtà.
Ciò che non viene detto da nessuno è che le leggi della fisica non sono reali. Così come tutte le teorie storiografiche, o filosofiche, o politiche, o scientifiche in generale non sono reali. Non sono la realtà: sono una rappresentazione della realtà. Nella migliore delle ipotesi un modello semplificato della stessa, che funziona solo a costo di ignorare il resto dell’universo e una buona dose di fatti. Questa è la scienza: approssimare la realtà con un modello, verificare che il modello funzioni, trovare la maniera di rimediare ai problemi che certamente il modello comporta. Ma non commettete l’errore di pensare che questi modelli possano essere la realtà. E di conseguenza scomunicare chi non ci crede, o fa notare gli errori e le incongruenze.

Mettere il modello al di sopra della realtà che rappresenta, è questo il peccato originale della conoscenza. Privilegiare la teoria sull’esperienza, per cui finiamo per non accorgerci che il modello che stiamo usando è da buttare. Lo si erige invece a idolo impossibile da mettere in discussione. Si chiama ideologia, ed è una brutta bestia, perché nega la ragione. Quella ragione che deve considerare ogni aspetto del reale per essere tale. Per essere sempre nuova, sempre alla ricerca, sempre stupita di come la realtà sia infinitamente più vasta di noi.

Nessun leopardo qui

Forse avete già visto quest’immagine, ma io ve la ripropongo lo stesso:

Una bella parete di roccia con neve.
E leopardo.

Magari siete quel tipo di persone che buttano un’occhiata e dicono, “Oh, sì, certo, è lì. Bello”.
Io no. Avevo già visto l’immagine qualche mese fa, trovato l’animale, ma quando oggi me la sono ritrovata davanti l’ho fissata vanamente per cinque minuti prima di rinunciare. Pur sapendo quasi esattamente la sua posizione. Fossi stato una preda, sarei già morto.
Solo quando, dopo un po’, ho guardato ancora la fotografia, ho individuato istantaneamente la bestia. Una volta che vedi, non puoi più non vedere (subito, almeno).

Ripensandoci, è quanto ci succede spesso. Sappiamo di una certa verità presente, ma non riusciamo a individuarla, per quanto ci sforziamo. La nostra vista è confusa da tutto il resto, dalle macchie e dalle ombre che mimetizzano il bersaglio sfuggente. Finché, un bel giorno, bam! Tutti i pezzi si incastrano, e capisci dove sta la testa di quel felino che ti sta guardando perplesso.
Certo, se qualcuno ti aiuta e te la indica si fa prima.

Viva la differenza

Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.

Dante Alighieri, Paradiso , canto I, vv 109-114

Nella fisica aristotelica l’attrazione è data dal grado di affinità. Il sasso cade perché è affine alla terra, il fumo sale perché affine all’aria.
Ad-finis, affine: ciò che confina con qualcosa d’altro, ne condivide un limite. Da questo io sono at-tratto: tratto a, mosso verso di lui o verso di lei.
Senza affinità, senza qualcosa che si con-divide non esiste attrazione e quindi amore.

L’opposto dell’attrazione è l’indifferenza: in-dis-ferentem, che non porta separazione, che non distingue, non fa differenze: il vero dal falso, il bene dal male, una cosa dall’altra. Se non esiste separazione allora non esiste nemmeno attrazione, ogni luogo è uguale, ogni persona è noiosamente simile. Cessa ogni moto, ogni impulso, ogni amore. La morte dell’universo, lo strisciare verso la massima entropia, lo spostamento verso il grigio.

Pensate quindi quale il risultato di cancellare ogni differenza, ogni distinzione, ogni confine. La grande omologazione, il pensiero unico, la fine di ogni movimento e la negazione di ogni fine.
Più niente attrae, niente mi è affine.

Questo mondo tacitamente dogmatico

Diceva Chesterton che “il mondo moderno è pieno di uomini che seguono così fortemente dei dogmi da non sapere neanche che sono dogmi“. Non posso fare a meno dargli ragione. Se provi a far notare che certe idee non sono verità assoluta ma, appunto, idee, vieni guardato come si guarda ai pazzi. O forse neanche, perché certe convinzioni e comportamenti che in passato nella migliore delle ipotesi erano segno di squilibrio mentale oggi sono considerati la nuova normalità.

Sono teoremi e si credono postulati. Così la scomunica, l’estraniamento da quel giardinetto recintato che chiamiamo civiltà, coglie chi dubita che parole come democrazia, diritti, amore, pace abbiano proprio quel valore universale o quel significato che oggi si dà loro. Come, non era differente solo qualche anno fa? La storia è scritta da chi non vuole ricordarla.

Bisogna muoversi quindi in punta di piedi, in attesa che la ragione e l’evidenza possano fare breccia nei crani induriti. A meno che anche la mia convinzione che l’uomo prima o poi sia costretto dalla vita a rendersi conto di cosa sia il vero sia anch’esso un dogma destinato ad essere sconfessato dagli eventi. Forse meritiamo davvero l’estinzione, come certi mentecatti sostengono, ma non per avere danneggiato una natura immaginaria, per avere rinunciato a stare al passo con essa. Vista la sorte dei non allineati, forse non contraddire i nuovi dogmi che ci vengono imposti può essere tratto di sopravvivenza nella nostra società; ma non della società stessa.

Chi l’ha detto che questo nostro mondo tacitamente dogmatico sia poi il migliore?

Il sogno continua

Quando, ieri, vi ho informato che avevo scritto un seguito al mio primo libro, non pensavo che le cose si sarebbero mosse così in fretta. Invece è già disponibile, qui.

Come vi dicevo, è un seguito. Chi si è affezionato ai protagonisti li ritroverà e ne incontrerà di nuovi e affascinanti. Ho messo parecchio sforzo nel rendere ciascuno di loro una persona viva, con un suo carattere, le sue debolezze e i suoi punti di forza; questo vale sia per i semplici umani – Van, Lara, Fran, Yeiben, Tomaso – che per gli angeli – Zelia e i componenti della Lega degli Arcangeli Ribelli – e gli stessi dei.

Ecco, gli dei. Se nel primo volume restavano in qualche maniera sullo sfondo e più che altro si facevano conoscere tramite le loro macchinazioni, qui si prendono il posto centrale che spetta loro. I millenni di sostanziale immobilità della società da loro sorretta stanno per terminare bruscamente, per loro stessa mano. Cosa può desiderare chi già detiene un potere immenso? Il potere assoluto, l’abolizione di ogni limite.
Ma, rimosso ogni limite, si diventa dei o demoni?

Spero apprezzerete. Il tono, fin dall’inizio, è decisamente più noir, mentre gli avvenimenti sembrano precipitare sempre più veloci verso un inevitabile disastro. Eppure una speranza, per quanto fioca, brilla sempre. In fondo il sogno cui vi parlavo a proposito del primo libro è questo: tenere viva quella fiammella, sussurrare che oltre tutte le brutte possibilità del mondo, di questo come di quello degli dei, c’è una sottile vena di grazia e di bellezza che corre sempre e non abbandona mai.
Nel mio piccolo, con queste pagine, cerco di ricordarlo a me stesso e a voi.

“L’ombra della Minaccia” è disponibile sul sito dell’editore e negli altri negozi online. I tempi di consegna ora dovrebbero essersi normalizzati, a parte Mondadori dove risulta ancora esaurito. Altri riferimenti:
IBS
Mondadori
Feltrinelli
Libreria universitaria
Amazon

Può essere letto anche indipendentemente, ma ve lo sconsiglio. Per quanto all’inizio ci sia un riassunto e ogni cosa sia spiegata e rispiegata, il volume precedente fornisce in partenza spessore ai personaggi e al loro mondo.

****

Come promesso, qui troverete il link a un racconto che approfondisce alcuni retroscena del libro, spiegando l’origine dell’odio che esiste tra due dei suoi personaggi. Sebbene sia autonomo come trama e non contenga spoiler, suggerisco di leggerlo solo dopo che avrete terminato il libro o, comunque, le sue due prime parti.

*****

Venerdì 12 maggio terrò una presentazione del mio libro a Torino. Chi volesse intervenire potrà conoscermi e scambiare due chiacchere.

***
Sabato 20 maggio sarò al Salone del Libro. Alle 11.15 avrò un’intervista allo stand dell’editrice Echos, padiglione 3 R69-71. Per il resto della giornata sarò lì nei pressi, quindi se mi cercate recatevi lì e se non ci sono chiedete che mi chiamino.

Il veleno

Il potere è un veleno ben conosciuto da migliaia di anni. Per l’essere umano che ha fede in una qualche forza superiore a tutti noi e che quindi è conscio dei propri limiti, il potere non è necessariamente fatale. Per quelli, invece, che non sono consapevoli di alcuna sfera più alta, esso è un veleno mortale. Per loro non c’è antidoto.

Aleksandr Solženicyn

Per mia fortuna, quel particolare veleno ha cessato da lungo tempo di avere effetti su di me. Ciò non mi impedisce di vederne gli effetti, e di rabbrividire come accade quando scampi a un grande pericolo.
L’uomo che non crede alla mano sopra la sua testa ha un abisso spalancato sotto i piedi.


I tempi che furono

Oggi un post molto breve. L’immagine che trovate più in basso si trova su un pilastro all’interno della Sacra di S. Michele, in Piemonte, un complesso monastico vecchio di dieci secoli. In realtà questo affresco ha la metà di quegli anni, risale al 1501. Rappresenta Santa Brigida di Svezia. Ecco, basta guardarla per mandare in tilt un certo immaginario contemporaneo.
Una donna decisa, bella, con la corona e l’ermellino, in mano una spada e un libro.
Questa santa vissuta nel XIV secolo, nel buio medioevo dove è noto che le donne erano oppresse, governò una provincia svedese con il marito, vivendo in povertà e costruendo un ospedale, diede alla luce otto figli (una figlia è pure lei canonizzata), insegnò alla futura regina di Svezia poi, una volta vedova, si spogliò dei suoi beni ed entrò in convento; quindi si trasferì a Roma, fondò un’ordine monastico, agì da mediatrice politica per cercare di porre termine alla guerra dei Cent’anni, fece pellegrinaggi in tutta Europa e Terra Santa prima di morire nella Città Eterna nel 1373. E’ stata canonizzata 18 anni dopo, ed è compatrona d’Europa.

Poveretta, non aveva modo di esprimersi. Ma, si sa, quello era il medioevo. Adesso, invece…

Gli immoralisti

Non c’è nessuno così moralista come gli immorali. Si indignano che il male sia chiamato tale e sono scandalizzati da chi tenta di fare il bene.
Non crediate che mostrare loro il vero serva a qualcosa. La Verità stessa ci ha provato, venti secoli fa, e tutti sanno com’è andata.