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Il significato
Oggi, Santi Pietro e Paolo, sono cinquant’anni dalla fondazione del monastero della Cascinazza.
Si trova accanto a Milano, in una campagna che pare impossibile che possa esistere così vicino alla metropoli. Strade strettissime, fiancheggiate da fossi così profondi che una macchina ci scomparirebbe dentro. E’ di fatto una cascina; i monaci benedettini che la abitano coltivano i campi, allevano api, producono birra. Nasce dall’incrocio tra la volontà di rinnovare l’esperienza benedettina e il carisma di Don Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione.
Ne avevo sentito parlare, anche perché vi era andato ad abitare un pittore molto famoso, William Congdon. Ma non so se l’avrei mai visitato se un mio compagno dei tempi dell’Università non avesse deciso di aderire a quell’esperienza. Ve ne ho parlato altre volte.
Le suore di Sant’Anna, dopo centoventicinque anni, lasciano il mio paese, l’asilo che ha ospitato tante generazioni, compreso me e i miei figli. Le altre volte che le suore erano state mandate via era stato Napoleone, erano stati i Savoia. Questa volta non è un nemico esterno, ma uno interno, la mancanza di vocazioni. In questo nostro tempo appare impossibile pensare di dedicare la vita a qualcosa di simile. Eppure il monastero della Cascinazza si allarga.
In un mondo dove tutto ti spinge a volere essere qualcuno, a dimenticare i tuoi limiti, scegliere di abbracciare quel limite appare assurdo e incomprensibile. Per fare qualsiasi cosa ci vuole una ragione. Per lasciare un fidanzamento, una carriera, la vita di prima, occorre vedere una possibilità di bene più grande. Una esistenza più vera, più piena; non di cose da fare, ma di significato.
Forse quello che oggi si è smarrito è proprio quello: il significato. Tentiamo di dare noi il senso alle cose, invece di guardare e capire. Siamo esseri finiti, come possiamo sperare di andare oltre noi stessi da soli?
Perché, se non andiamo oltre noi stessi, rimarremo sempre ciò che siamo: esseri di terra e sangue, ostinati nel male.
Invece la notizia è che il significato si è fatto carne, e abbraccia anche il nostro essere nulla.
Perché anche il nostro nulla abbia significato.

Infedeli
L’onere dell’essere padre e madre è anche portare i figli alla festa della scuola e poi passare a prenderli a divertimento finito. Ma ci possono anche essere vantaggi. Stasera io e mia moglie abbiamo approfittato della pausa tra un servizio taxi e l’altro per recarci ad un incontro con Samir Khalil Samir.
Padre Samir è una delle personalità più notevoli che io abbia mai incontrato. Egiziano di nascita, gesuita di quelli tosti, studioso di fama internazionale, uomo di Dio. Ci ha parlato a lungo di Islam, di fondamentalismo islamico, cosa possiamo fare noi cristiani, oltre a morire dando testimonianza a Cristo come i nostri fratelli massacrati oggi.
Ci ha esposto, con dovizia di citazioni a memoria del Corano in lingua originale, la radice di quella violenza islamica che è innanzitutto di islamici verso islamici, ma che coinvolge anche tutti noi. E la causa è l’Islam stesso, nelle sue contraddizioni, nella violenza intrinseca delle sue posizioni, nella interpretazione che ne viene data.
Ci ha ricordato che ai nostri fratelli islamici dobbiamo dare il meglio, e il meglio è Cristo. Senza scusanti, senza falsi buonismi o moralismi. Altrimenti, come ci ricordava un copto presente in sala, saremo come tutti gli altri europei, silenziosi di fronte agli orrori che ogni giorno accadono perché morti dentro. Infedeli non solo per l’Islam, ma anche verso ciò che come cristiani dovremmo essere.
Cioè portatori di speranza e di gioia, vale a dire di Cristo stesso,
Di strada
Tanti anni fa, quando studiavo ancora, mi trovavo a Rimini per seguire degli esercizi spirituali. Mentre l’autobus attraversava la sera riminese mi colpirono certe donnine che sostavano all’angolo delle strade. Mi domandai: perché loro sono lì, e io qui sopra? Non siamo fatti diversamente. Probabilmente abbiamo lo stesso desiderio di bello, di vero, in fondo di amore.
Una parte della risposta sta nella storia di ognuno, ciò che abbiamo incontrato; ma anche nella libertà, sia in quella che possediamo sia quella che ci è negata.
Quello che era vero allora lo è ancora adesso. Molte, troppe di quelle persone a quegli angoli di strada, a Rimini come nella nostra città, non hanno una scelta. Noi invece l’abbiamo. Riporto quanto ricevo da un amico della Comunità Papa Giovanni XXIII:
Nel mondo del 2017 esistono ancora gli schiavi. La tratta degli esseri umani non si è mai fermata ed oggi coinvolge 21 milioni di persone. Il 53% di questo traffico è a sfondo sessuale. Tra le donne coinvolte una su tre è minorenne. Sono le nostre figlie, le nostre bambine… portano nella carne il peso di 9 milioni di italiani clienti del supermercato del sesso.
La Comunità Papa Giovanni XXIII promuove la campagna “questo è il mio corpo” (http://www.questoeilmiocorpo.org) per far approvare la proposta di legge Bini circa l’introduzione di sanzioni per chi si avvale del prestazioni sessuali di soggetti che esercitano la prostituzione. Non si può affermare che chi va con le prostitute stia esercitando una libertà. Il cliente rappresenta la domanda in un mercato dove la merce è fatta da esseri umani.
“La merce è fatta di essere umani”. Dare un valore a ciò che è non è misurabile, ridurre l’infinito al finito, è la tentazione eterna dell’uomo. Pensare che si possa comprare o vendere una persona: un lavoratore, una donna, un bambino. Quante volte ci cadiamo anche noi, dandolo quasi per scontato. Senza ricordarsi che noi tutti percorriamo la medesima strada, che anche noi facciamo parte dell’umanità. Che se compriamo, possiamo anche essere venduti.
Quanto costa la vita di un fratello, di una sorella?
Che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?
Piccoli segni di speranza
A leggere di questo viaggio in una Siria devastata nei cuori più ancora che nelle cose, davvero le cronachette di casa nostra sembrano robetta. E’ ben spiegato chi siano i disperati che bussano alle nostre porte chiuse. I figli di una terra da cui tutti vogliono scappare, consapevolmente fatta tale dalla cattiveria degli uomini.
Noi non sappiamo, noi non capiamo. Ci occupiamo di mille cose vuote. E’ difficile accettare l’immane sofferenza che l’uomo può arrecare all’uomo. Se è così doloroso per noi, che non ne vediamo che una piccola parte, che non comprendiamo quello che vediamo, quanto immensa deve essere la sofferenza di quel Dio che ci ha fatti tutti, che tutto vede, e che ci ama. Il Padre che vede i figli sbranarsi. E i loro fratelli perdersi nel nulla da loro stessi immaginato.
Solo i piccoli segni di speranza, di bellezza, di pace così ben descritti nell’articolo possono gettare un poco di luce in quel buio fitto di morte e di male. Una speranza incredibile, immotivata, inesprimibile, che solo può nascere da qualcosa di più grande degli uomini. Anche se saranno forse le armi a distruggere le armi, non saranno le armi a ricostruire.
L’abbraccio
Questa la lettera che una cara amica ci ha scritto dopo essere tornata dal pellegrinaggio a Loreto
Carissimi amici, di ritorno da Loreto, vi inoltro il messaggio che Carron ha scritto per il pellegrinaggio.
Ho camminato chiedendo alla Madonna che quanto ci ha scritto sia vero tutti i giorni per me, la mia famiglia e per ognuno di voi.
Ho scritto su dei fogli i nomi di ognuno di voi, dei vostri figli, dei vostri famigliari e anche dei vostri cari già in cielo e poi, arrivata davanti alla Santa Casa di Loreto, li ho lasciati lì come mia intenzione di preghiera.
Vi abbraccio
Ora, ditemi: in quale altro luogo al mondo potete trovare qualcosa di simile? Dove potete trovare qualcosa di simile?
Lottare
Mette ancora i brividi. Non ha più la pessima fama che aveva quarant’anni fa questo quartiere, la Falchera. La frontiera ormai passa altrove. Ma nel buio di queste corte giornate il freddo deserto di certe sue vie, larghe abbastanza da ospitare sfilate del primo maggio sovietico, mette inquietudine e disagio. Storie ne ho viste e storie ne so troppe per prenderlo alla leggera.
I casermoni, le altissime torri di cemento con ascensori da incubo allora ospitavano una umanità sì migratoria ma italiana. Ora le facce che mi guardano vanno dal tè al caffelatte al cioccolato extra. Sono gli ospiti di una piccola comunità che ospita rifugiati politici, detenuti ai domiciliari senza domicilio, altri esuli in cerca di un posto dove abitare, forse non solo fisicamente.
Qui una volta ci doveva essere una scuola. La struttura era abbandonata, fatiscente come tutti i progetti ideologici. Un prete prese l’edificio, lo rimise in piedi, cominciò ad ospitare questa umanità errante. Di quel prete magari ne avete letto sui giornali. Doveva essere più o meno così che Guareschi pensava don Camillo: un pezzo d’uomo con mani come badili. Ex lottatore passato alla pesca d’anime, i giornalisti lo chiamavano Padre Rambo. Non esattamente un pretino da sacrestia, don Mario Loi.
Io sono qui per cantare, con il mio coro. Un’oretta di musica natalizia, il meglio del repertorio. Ce l’ha chiesto un’amica che ha incontrato questo luogo. Perché gente che arriva da molto lontano – Afghanistan o Congo – possa scoprire qualcosa di bello e forse sconosciuto di questa terra che forse un giorno anche loro chiameranno casa.
Certo, non a tutti piace il concerto, ci mancherebbe. Diversi se la svignano prima della fine. Ma la libertà è anche questo: liberamente offrire, liberamente accettare o rifiutare. Dopo si mangiano assieme tranci di pizza e panettone, mentre Padre Mario narra tutta una serie di episodi di vita, e le difficoltà del presente.
Un paio di anni fa il nostro ospite finì sotto inchiesta. Ha gonfiato fatture, era l’accusa. Finanziamenti pubblici indebiti. I giornali lo condannarono immediatamente – questo strano cortocircuito tra magistrati e giornalisti per cui i titoli riflettono quasi sempre le tesi degli inquirenti. Il sospetto di un filo di accanimento ideologico a sentire il racconto viene – ma certo, è tutto nella mia testa di malpensante.
Padre Mario mi descrive il meccanismo per cui anche chi sa di essere innocente subisce la suggestione dell’accusa ingiusta. Se la subisce l’accusato che sa, figurarsi quelli che gli stanno attorno. Figurarsi i politici, cosa penserebbe la gente se stessero accanto ad un inquisito. Figurarsi le banche, se danno credito ad un malfattore. E così i contributi sono sospesi, i bandi e le domande di finanziamento non vanno a buon fine.
Nel frattempo Padre Mario è stato assolto, per non avere commesso il fatto. Peccato che la quisquilia di indennizzo ottenuto non basti certo a coprire il debito che le false accuse hanno causato. Peccato che il Comune rivoglia la struttura rimessa a posto, per usarla per affari suoi, e abbia dato lo sfratto.
Si lotta per costruire, si lotta per non cadere. Non so che cosa ne sarà tra tre mesi di quest’opera. Se sarà ancora in piedi o sarà una vittima collaterale di un certo sistema che, dicendo di cercare una società più giusta, ha dimenticato l’umano.
In questo tempo di Natale, una preghiera non andrà perduta. Le opere, in fondo, le fa Dio, usando le nostre mani. Da soli siamo solo capaci a disfarle.
Il Papa è imbarazzante
Questo Papa è imbarazzante. Molto più imbarazzante di Kate Middleton e delle sue pudenda, di un brutto presunto film su Maometto o dei litigi e scandali politici nostrani. Così imbarazzante che mentre la principessa e i politici e il film occupano le prime pagine, il Papa viene relegato all’interno, o ignorato del tutto, manco una nota di costume (come Kate).
Ma cosa ha fatto di così tremendo questo Papa da meritare il bisbiglio o il silenzio globale, non solo dei media italiani ma di quelli del mondo intero?
Ve lo dirò: ha portato in piazza mezzo Libano a sentire parlare di pace vera, e Cristo.
Questo non si può fare. E’ vietato, vietatissimo, specie in un momento in cui i musulmani cattivi, di cui il Libano è pieno, stanno bruciando ambasciate e ambasciatori in tutto il mondo. Certo, se fosse stato contestato la cosa sarebbe andata diversamente. Un attentato sarebbe stato ancora meglio, mannaggia, e sono sicuro che c’era chi l’attendeva come chi guarda la partenza del Gran Premio aspettando l’incidente. La pace non fa vendere, Cristo non fa notizia.
L’idea che anche i musulmani un po’ di questa voglia di pace ce l’abbiano, poi, deve essere apparsa strana a molti. Strano che siano anch’essi uomini, nonostante una religione che troppo spesso sembra volere fare di loro altro. Che oltretutto sia proprio questo Papa, quello cattivo, inflessibile, il tedesco, quello di Ratisbona, a raccogliere così tanta folla festante…no, rispettiamo la sua privacy, è comunque una non-notizia.
Se propone la famiglia e il rispetto per la vita come soluzione all’odio e alla violenza è chiaro che è un illuso, fuori dai tempi, dato che la soluzione ai mali del mondo è la ripresa che avverrà sicuramente, però nel secondo semestre del 2013. Giudici e magistrati saranno d’accordo che è la giustizia che dà efficacia alla politica terrena della pace, ma è chiaro che se si specifica che questa giustizia deve essere in Dio e che deve lottare contro il peccato che è all’origine della divisione no, non ci siamo, meglio soprassedere.
Le centinaia di migliaia di persone che hanno acclamato il Pontefice in una terra così martoriata sono tutte fesse, è chiaro. Pensare che la pace possa avere origine dalla fede in un uomo e non negli uomini, è potenzialmente destabilizzante, inaudito. In un uomo morto, oltretutto, anche se alcuni dicono che è risorto.
La pace la si fa con i bombardamenti, gli attentati, la vendetta; con la tolleranza di tutto tranne che della religione, col negare la verità che fa male, con un accurato progetto politico, con la demolizione morale o la rimozione fisica dell’avversario, quando è ostacolo. Non con quell’altra cosa. Quindi, zitti. O dire il meno possibile.
Perché ragazzi, è veramente imbarazzante. Che figura ci faremmo tutti, se fosse vero?
Un sacchetto giallo
Come abitudine sabato scorso ho partecipato alla colletta alimentare. Quest’anno ero in un supermercatino periferico. Non tanta gente, due sole casse. Non c’è stato bisogno dei ritmi forsennati di altri anni, in ipercosi ben più pieni, quando si riusciva a malapena ad alzare la testa e non facevi in tempo a costruire una scatola che era già bella che riempita. Tutto tranquillo.
All’ingresso la piccola bambinetta bionda e il dirigente cinquantenne ti porgevano il foglietto di spiegazione e il sacchetto giallo da riempire. Difficile dribblare uno scricciolino riccio che ti guarda con occhioni spalancati. E poi ormai il banco alimentare è conosciuto: da quando c’è la pubblicità tivù c’è meno diffidenza, non devi più fare lunghe spiegazioni come un tempo.
Se il sacchetto tornava riempito veniva preso in consegna dagli altri ragazzini, tra cui mio figlio. Veniva dato il foglietto di ringraziamento. Mia figlia smistava il contenuto nei vari scatoloni: pasta, legumi, omogeneizzati…Quando il cartone era pieno noi adulti lo etichettavamo, pesavamo, sigillavamo, contabilizzavamo e lo impilavamo sulla pedana in attesa del furgone.
E la gente dava. Quasi tutti, impressionante. Il ragazzino che era venuto solo a comprare la birra, la signora che ha chiesto un secondo sacchetto e ha riempito pure quello, perfino l’avventore dell’ultimo minuto, arrivato mentre stavamo sbaraccando e venuto a chiederci lui il sacchetto.
Quelli che non danno li riconosci quando entrano. Lui e lei superfighi e firmati che manco ti degnano di un’occhiata. Il tipo che evita lo sguardo. E i pensionati, che non sai se fai prima a darglielo tu, il sacchetto. Pochi. C’è ancora un popolo, un popolo a cui importa.
Ritmo tranquillo, dicevo all’inizio. Però abbiamo finito i foglietti di ringraziamento, e in tutto abbiamo raccolto più di 600 chili. Io, tra correnti d’aria e spostare cartoni di scatolette, ho raccolto anche l’abituale mal di schiena…
Una vacanza in compagnia
Come dicevo la settimana scorsa, troppo spesso mi capita di fare l’esegeta della Bellezza, colui che spiega la Bellezza, invece di essere colui che indica la Bellezza.
Ho la grazia di conoscere molta gente che quella Bellezza l'ha incontrata. Quindi oggi non scrivo io, ma do spazio a esperienze reali di quei testimoni
Tre giorni di vacanza insieme ai propri amici, per imparare a prendere sul serio il proprio desiderio di felicità, di bellezza. In gita al rifugio Bertone in Val Ferret, una famiglia amica con 4 figli piccoli, alcuni piangono, gli altri non vogliono camminare.
I genitori sconsolati: torneremo indietro. Chiamo le due figlie, mi conoscono poco ma vengono dietro al gruppo senza lamentarsi, anzi mostrano a me e a quelli vicino a me la bellezza dei fiori e delle foglie, dei larici e dei rododendri.
Senza accorgemene arrivo al rifugio; sono preoccupato perché non vedo subito i genitori delle bimbe, ma sono lì subito dietro: anche gli altri due figli hanno camminato nel gruppo in silenzio, osservando la bellezza della natura.
Mangiamo e poi cantiamo canti di montagna. Ecco: ad un certo punto nel cielo azzurro compare l'arcobaleno, al contrario, tanto che sembra un sorriso. Su internet si legge che è un fenomeno raro, non capita spesso di vederlo, soprattutto alle nostre latitudini. Chissà, forse è il segno che qualcuno ci vuole bene e ci sorride sempre.
Paolo e Claudia
Le circostanze inevitabili
Sì, lo so, sono cose che ho già scritto (qui, qui e qui). Siccome nessuno ha commentato, può darsi che nessuno le abbia lette. Il che è un peccato (nel senso originale del termine: un di meno per noi), perché sono veramente decisive per la vita, se capite bene.
Quindi di seguito trovate un condensato, pubblicato anche su "Il Pulpito". Se pensate che l'originale fosse troppo lungo vale la pena comunque darci un'occhiata, e lasciarsi interrrogare.
Qualche giorno fa sono andato con alcuni amici a trovare Fabrizio. Lo conosco dai tempi dell'Università, lui si è laureato in architettura. Ma non progetta case. Sono quindici anni che vive in un convento alle porte di Milano, dove si è fatto frate benedettino.
Uno di noi l'apostrofa: "Bastardone, ti sei scelto la parte migliore". Un'altra gli dice "Ti vediamo sereno e contento…o sei pazzo o quello che hai trovato è vero."
E lui ci racconta del perché sia entrato in monastero. Di quel "centro affettivo", che è la cosa più importante per ogni uomo, ciò che lo fa sentire realizzato, vero, a cui non rinuncerebbe mai. Troppo spesso è qualcosa che passa, che delude. Lui aveva desiderio di trovare qualcosa che durasse: perché non bastano la laurea, il lavoro, la morosa, i soldi. Prima o poi ti accorgi che c'altro, c'è sempre altro. C'era una ferita che non si rimarginava, un'inquietudine. Quel "bisogno di" che è la Grazia più grande: perché quando hai fame, cerchi.
Ci narra di quell'incontro casuale, di quell'oretta passata in convento andando a pigliare un amico. Di come gli aveva detto "Mi sembra che quelli lì facciano più di noi che ci sbattiamo tutto il giorno". E di quell'impressione di avere trovato un luogo dove non c'era più bisogno di innalzare maschere e barriere, dove si poteva essere pienamente se stessi. "Se ti difendi, perdi il meglio. Non c'è da scandalizzarsi di quello che si è. Perché si è dei poveretti, dei pozzi di miseria come tutti. E' Cristo che ti prende e ti tira su, e più passano gli anni e più sei preso da questa tenerezza per te. Il cuore dell'uomo lo apre solo Dio."
Ci parla di cosa voglia dire avere una compagnia nella vita. Qualcuno che ti dica che stai sbagliando, che stai sognando, stai fuggendo dalla realtà. Che sia leale, perchè questo servono gli amici: se sono leali le cose te le dicono. Correggere deriva da cum-regere, sostenere insieme. L'altro che ti sta di fronte diventa non ostacolo ma occasione per crescere. "Le cose più importanti le ho imparate dagli errori. Con l'errore il Signore mi sta facendo capire qualcosa. Tutto, anche il negativo, diventa un passo che si compie".
Ci sorride, gli anni non sembrano passati.
"Ognuno ha la sua parte di inquietudini. Ma non bisogna vivere le circostanze con angoscia, piuttosto come uno che chiede ad un padre buono. Le circostanze sono fattori inevitabili. La circostanza inevitabile è di Dio. La realtà non ce la diamo noi, è fatta da un Altro. Quando si prende coscienza di questo si diventa più semplici."
La libertà implica una decisione che può anche costare (dire ai genitori che vuoi entrare in convento, per esempio…). La libertà cresce nella misura in cui scopri questo volto che ti fa, e che ti rende libero fino al punto di obbedire. Obbedire, sino al dettaglio; o sei un manichino o sei cosciente di quello che fai. "Oppure" e ci sorride "oppure schiatti". Ognuno di noi è libero, perché è amato.
Siamo liberi anche di peccare. Nel Vangelo di Giovanni, durante il processo a Gesù, Pietro piange. Si mette a piangere quando è guardato, quando Cristo lo guarda: è uno sguardo che fa rinascere. Cosa fare di più? Se uno è leale aderisce a questo sguardo. Uno cede e aderisce, e allora Cristo lo porta. Non sei più tu che ti affanni e fatichi. E' lì che si gioca la libertà. La tentazione è dire 'Allontanati da me che sono peccatore'. Ma chi sei tu per dire chi Cristo deve prendere, e quando? Gesù i suoi apostoli li piglia mentre stanno pescando."
E ci fa comprendere che una volta capito questo, rinunciarvi vorrebbe dire buttare via tutta la vita. Non si può fare finta di niente, perché è una decisione sulla propria esistenza. Una decisione per tutti gli uomini, non solo dei monaci.
E' un problema di come utilizziamo il nostro tempo, penso tornando verso casa. Se continuare a buttarlo, discutendo di quisquilie, o farci colpire da quello sguardo e iniziare a vivere davvero.
Una gita a MIlano – 7 – Liberi, perché amati
Post della serie: 1–2–3–4–5–6–7
Continuiamo a seguire in silenzio Fabrizio che ci parla. E’ evidente che uno non fa tutti questi chilometri se non spera qualcosa di buono sulla sua vita, se non c’è quell’urgenza di significato che spinge a muoversi. Le domande continuano.
“A volte ci accade di non vivere la realtà, ma un’immagine che ce ne siamo fatta. E pensiamo di riuscire a fare da noi, oppure che non valga la pena muoversi. Come uscire dal ‘sogno’?”
“Questo si chiama scetticismo”, risponde il nostro amico frate. “Perché ho deciso così? E’ una domanda che mi pongo quando non ricordo più cosa mi ha mosso. E’ come venisse meno la voglia di vivere il compito. Il compito che mi è dato è che io maturi, che io sia me stesso. Allora la strada è pregare. Chiedere e pregare. Chiedere che tutto diventi chiaro. E in questo una compagnia è indispensabile. Uno che ti vuole bene ti dice che è sogno. Se mi è leale le cose me le dice. La compagnia serve per essere aiutato e correggere. Correggere deriva da cum-regere, sostenere insieme.”
“C’è stata un’occasione in cui ho avuto una fatica enorme, finché non ho iniziato ad ad intuire che l’altro che ti sta di fronte non è ostacolo ma occasione. Le cose più importanti le ho imparate dagli errori, diceva Michelin (quello dei pneumatici, che abbiamo conosciuto NdR). Con l’errore il Signore mi sta facendo capire qualcosa. Tutto, anche il negativo, diventa un passo che si compie.
Ti è dato che che tu stia vicino all’altro come cambiamento a te. Lo sguardo inizia a cambiare. Ci si aiuta sul perché siamo insieme. Ognuno ha la sua parte di inquietudini – e qui racconta di un grave problema di salute in famiglia – ma non bisogna vivere le circostanze con angoscia, ma come uno che chiede ad un padre buono. La circostanza inevitabile è di Dio. Le circostanze sono fattori inevitabili. La cosa più inevitabile, la morte, è quella più divina. La realtà è fatta da un Altro. Quando si prende coscienza di questo si diventa più semplici.
Noi, qui, andiamo in Chiesa 7 volte al giorno. abbiamo la messa, il silenzio e il lavoro. Alle 5 ci si alza, alle 6.15 c’è la colazione, alle 8.30 c’è la messa, dalle 9 alle 12 il lavoro. Lodi, silenzio, Ora media, pranzo, lavoro fino alle 18, poi vespri, cena e compieta…”
“La libertà implica una decisione che può anche costare (dire ai genitori che vuoi entrare in convento, per esempio…). La libertà cresce nella misura in cui scopri questo volto che ti fa, e che ti rende libero fino al punto di obbedire. Obbedire, sino al dettaglio; o sei un manichino o sei cosciente di quello che fai ( o schiatti). Libero, perché amato.”
“Siamo liberi anche di peccare. Nel Vangelo di Giovanni, durante il processo a Gesù, Pietro piange. Si mette a piangere quando è guardato, quando Cristo lo guarda: è uno sguardo che fa rinascere. Cosa fare di più? Se uno è leale aderisce a questo sguardo. Uno cede e aderisce, e allora Cristo lo porta. Non sei più tu che ti affanni e fatichi. Se Gesù è morto è perché ne avevamo bisogno.
La mia libertà è non riconoscere che Lui è tutto. Non riconoscere che Dio sia tutto nella nostra vita. Non siamo i padroni neanche del nostro corpo, non riusciamo a cambiare neanche il colore dei nostri occhi. Di fronte alla realtà facciamo gli spavaldi come Pietro è spavaldo, fino a che getta la maschera. Quando uno ti richiama, quando uno te lo dice che stai vivendo in un sogno, è lì che si gioca la libertà. La tentazione è dire ‘Allontanati da me che sono peccatore’. Ma chi sei tu per dire che chi Cristo deve prendere, e quando? Gesù i suoi apostoli li piglia mentre stanno pescando.”
Si tira all’indietro, ricordando. “Ho partecipato ad una Equipe internazionale, qualla il cui titolo era ‘In cammino’. Tutto bellissimo, esaltante, ma poi la sera in camera pensavo: “Qui, cosa stai cercando? Se dici di no, poi non puoi più essere contento. Chissà quante volte ti riemerge dentro come un tarlo che ti ribuca.” Mi dicevo, se dico di no vado sotto. E’ un di meno a me stesso, alla mia umanità. Ragazzi, non c’era nessuno che mi vedeva in quel momento. Era la mia libertà in gioco, una decisione per la vita.
Dio non ti fa censurare niente. Solo Dio può permettere ciò. La domanda, la preghiera è il gesto più libero, perché lo fai tu ed il motivo è che ne hai bisogno.”
Estrae dalla tasca del saio una lettera. “Questa lettera è di uno di 24 anni che è qui da un mese ed è già più avanti di me. Me l’ha scritta in occasione dei miei quindici anni qui in convento.
Ne legge un brano: “Alzarsi il giorno dopo che sei qui da 15 anni vuol dire che iniziano altri 15 anni. Ed è già un miracolo, è il centuplo”
Si interrompe. “Capite? Uno pensa di essere avanti, e poi arriva uno nuovo che ti rendi conto devi seguire se vuoi crescere. E’ questo che ti rompe gli schemi.”
Riprende. “Il sacrificio non lo fai per il gusto del sacrificio ma per il passo che ti fa fare. La fecondità della Chiesa è perché i santi dicono di sì a Cristo. Si dice di sì alla faccia che abbiamo davanti in casa. Che è la circostanza oggettiva. Facendo questo tu salvi il mondo, il mondo è salvato per mezzo di te. Pensi di essere te a fare, ma è l’opera di un Altro. La patrona delle missioni è Teresina del Bambin Gesù, che non è mai uscita dal suo convento. La Chiesa non è attivismo e volontariato, proprio per questo.”
Ci racconta che, dopo avere provato diverse strade per poter finanziare il convento – l’agricoltura ormai non rende abbastanza – alla fine hanno cominciato a fare la birra. Dopo gli inizi difficoltosi adesso è un’attività che va bene. Eppure ne producono meno di quanto potrebbero. Solo quel che basta, e non di più. “Perché lo fai? Devi domandartelo sempre, capire cosa è più importante. Uno non si fa soffocare dalle cose” e ci narra di una persona che conosce che ha rifiutato un posto da dirigente di una multinazionale che l’avrebbe reso ricchissimo. “Quelli non capivano. Hai capito bene quello che ti stiamo offrendo? E lui diceva sì che lo capisco, ma mi porterebbe lontano dalla mia famiglia e dalle cose a cui tengo, così rifiuto. Che c’entra la passione con te stesso? Cosa è importante veramente? La vita ha una forma che va salvata. Perché? Ha senso, non ha senso? Il giudizio che dobbiamo dare è questo.”
Suona una campana, il tempo di trovarci è finito. Ci salutiamo, il sole sta tramontando sulla bassa milanese. Mentre torniamo nella sera che diventa notte ripensiamo alle cose dette, a come la vita ci metta sempre davanti a delle scelte. E come tutto stia alla nostra libertà.
Nella illustrazione: Alba alla Cascinzazza, di William Congdon
Lodi, Ora Media, Vespri e Compieta sono preghiere recitate in comune dai monaci
Equipe internazionale: il momento di riunione dei responsabili di Comunione e Liberazione di tutto il mondo
Una gita a Milano – 6 – Giorni lieti e notti tranquille
Post della serie: 1–2–3–4–5–6–7
Se non fosse per il saio sembrerebbe il ragazzo di vent’anni fa. Tra noi ci sono anche i figli già grandi, curiosi di questo strano “zio”, anche loro in cerca di parole per la propria vita. Fabrizio li guarda, guarda noi ad uno ad uno mentre ci risponde.
E la domanda seguente si riallaccia alle precedenti. “Come vivi questo centro affettivo durante la giornata?”
Lui Sorride. “E’ una Vocazione”, dice.
“Si declina nella forma che Dio vuole. Si stava bene nel CLU, il monastero mi ha trovato, non l’ho cercato. Sono passato di qui per caso, accompagnando Primo a prendere Pietro a Milano…” Sorridiamo al riferimento al nostro “padre fondatore”, che attualmente vive a Roma. L’impatto con lo straordinario passa per il quotidiano.
Fabrizio prosegue: “Dissi a Primo ‘Mi sembra che quelli lì facciano più di noi che ci sbattiamo tutto il giorno’.
Come mai avevo percepito questo? Avevo percepito una presenza, della gente che guardava Uno. Non da soli, ma dentro una compagnia. ‘Voglio seguire quello che rende me uomo’, è questo che volevo e che pensavo. E se hai quella domanda, ti attacchi a chi ti può rispondere, ai luoghi e alle persone che intuisci rispondano”.
“Questi luoghi sono l’ambito in cui il seme cresce. Certo, l’impatto con il convento non è stato semplice. La forma è assurda, se non sei qui per Cristo. E se non sei qui per Cristo, che ci stai a fare? Strappare le erbacce, pulire, cucinare…il monastero è una casa che non è fatta della bravura di quelli che ci stanno dentro, ma un luogo che grida altro. C’è dentro Uno che porta avanti tutto. La radice è per tutti. Hai una casa dove tornare.
E hai una compagnia che ti spacca continuamente l’immagine che ti sei costruita. E’ una conversione continua, dove ti pare di avere capito e invece no. Ci sono passi da fare continuamente, non puoi stare mai tranquillo, non puoi mai adagiarti”.
“Racconta la circostanza in cui hai capito che Cristo era il centro affettivo”, domanda uno di noi.
“E’ successo una volta, ed il giudizio è stato chiaro. L’innamoramento di una ragazza non ti basta. Se uno pensa che l’altro sia il compimento sei fregato. Invece ‘Cristo me trae tutto tant’è bello’, come diceva Jacopone da Todi. E’ un disvelarsi di questa bellezza giorno per giorno. Quello che normalmente frega è il mio limite, il sentirsi inadeguato e traditore. Qui invece l’abbraccio teorico diventa fisico, non hai più niente da difendere, mentre fuori il mondo ti pialla. Qui le difese sono inutili, se ti difendi ti perdi il meglio. Non c’è più bisogno di scandalizzarsi di quello che si è. Pur continuando ad essere quello che siamo, dei poveretti, un pozzo di miseria come tutti. E’ Cristo che ti prende e ti tira su, e più passano gli anni e più sei preso da questa tenerezza per te. Non ti scandalizzi per te e degli altri. Il cuore dell’uomo lo apre solo Dio.
Anche le cose più semplici diventano miracoli.
Una parola, un sorriso, quello ti riapre; uno sguardo.
Quello del limite, l’avere preso consapevolezza del proprio limite è stato decisivo. Il capire che si è amati come si è, come siamo realmente, non come vorremmo essere. L’altro, quando è guardato così, si apre; capisce il limite. Normalmente invece nel rapporto con una persona ti domandi ‘Vuole bene al mio destino o lo fa solo per divertirsi?’
Ma dove si va, se andiamo via di qui? Se dici no dopo avere capito una cosa simile è una vita buttata via. Vale anche per i monaci. La tentazione è costruirsi un giardinetto dove non entra nessuno. Invece se tutto è in funzione del tuo centro affettivo non c’è vergognarsi di sé. Cosa abbiamo da difendere?
Certo, se non c’è un tipo umano sano non costruisci niente. Se c’è, hai dei punti di umanità nuova che costruiscono. Il monastero ti fa essere te stesso fino in fondo, chiamare le cose con il proprio nome e andare avanti. Ciò che fa ripartire non è l’errore ma il perdòno. Esso nasce da una commozione. Dalla misericordia originale che ci si richiama l’un l’altro.
E’ importante darsi un ambito, delle regole. Ad esempio tu dici l’Angelus, uscendo di casa, con la moglie…Regole che alla fine fanno: non moralismi, ma un sostegno del cuore. Essere veri, sinceri, leali. Fino alla fine, perché non c’è niente da nasconderci”.
Una di noi interviene “Ti vediamo sereno e contento…o sei pazzo o è vero quello che dici!”
Lui sorride. “Che uno si addormenti sereno è un miracolo. Quando sono nel letto ripeto quella strofa del Christe Cunctorum Dominator Alme, “giorni lieti e notti tranquille” per chi abita in questa casa. Ed è proprio così.”
Legge alcuni brani del libro “Si può (veramente?!) vivere così?”, dalla pagina 437 in avanti.
” ‘Alla sera non misurare’…tutto quello che c’è da dire è ‘Vieni, Signore Gesù!’. Con forza e senza pretesa. E poi, e poi, e poi…chi non ha questa speranza ha il cuore prosciugato. Dobbiamo aiutarci a non vergognarci di come siamo fatti e non giudicarci, perché siamo fatti tutti male”.
CLU: Gli Universitari di Comunione e Liberazione
Una gita a Milano – 5 – La parte migliore
Post della serie: 1–2–3–4–5–6–7
Usciamo dal Cimitero Monumentale, ed è ora di pranzo. Speravo in un ristorante cinese o giapponese, ma l’opposizione interna è troppo forte e ci ritroviamo in un piccolo ristorante-pizzeria pugliese. Che però non si rivela essere affatto male – e il peperoncino è veramente letale. Siamo una dozzina o poco più. Si mangia rilassati ed in allegria, raccontandoci quanto di bello hannno le nostre vite, e poi via, siamo già in ritardo: ci tocca attraversare la città.
Attraversata la tangenziale sembra di essere in un altro mondo. Non sembra verso che poco distante vi sia Milano: i prati attorno a Gudo si stendono frammezzati da filari di alberi a perdita d’occhio. Le stradine sono strettissime, non so come faremmo se incrociassimo un’altra vettura. Ma non accade, e siamo qui, di fronte a quella che sembra una fattoria di discrete dimensioni e invece è un convento benedettino, noto a tanti con il nome di “Cascinazza”.
Cosa ci facciamo qui? Sono quindici anni ormai che un nostro amico dei tempi dell’Università, laureato in Architettura, è qui dentro. Ed oggi ci siamo trovati – il gruppo del Monumentale e altri trenta venuti direttamente qui – per fargli qualche domanda. Per capire meglio cosa lo ha mosso nella sua scelta.
All’ora stabilita Fabrizio arriva. Non è cambiato molto, a parte i capelli che sono rasati. E un nonsochè che ti mette allegria solo a guardarlo.
Ci stringiamo in una saletta, mentre arrivano gli ultimi ritardatari smarritisi nelle campagne.
Uno di noi lo apostrofa: “Ti stai pigliando la parte migliore, bastardone!”
Ridiamo. Comincia a parlarci di cosa sia un “centro affettivo”.
C’è una frase che dice: “La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene.” L’ha fatta stampare sul’annuncio dell suo ingresso in convento, insieme ad un volto di Cristo che arriva da Chartres e al motto “Frate Fabrizio per sempre”.
Per un uomo, ciò a cui è attaccato, il suo centro affettivo, lo “tira” e trova in esso la più grande soddisfazione. Ma cos’è questa cosa che ci tira? Questo passaggio decisivo è un problema dell’uomo, di ogni uomo, non dei soli monaci. Perché ciò in cui riponiamo la speranza di solito non basta. Finisce. Delude.
Quello che non finisce, che non delude è l’affetto di Cristo a me. Altrimenti “Per sempre” è impossibile all’uomo.
Aveva letto, ci racconta, un biglietto che diceva questo e che l’aveva colpito: poiché è ciò che tutti cerchiamo. “L’unica ragione adeguata del nostro pellegrinaggio terreno”. Come dice Don Giussani: Quell’amore di Cristo alla nostra vita, cioè lo scopo nel vivere. Sia che ti sposi o altro. Devi arrivare ad un punto, perchè quest’inquietudine non viene meno. “Più vedevo cose belle”, ci dice, “più questo si approfondiva. E’ la grazia più grande. E’ come una ferita aperta, una inquietudine che è una Grazia enorme. E’ un bisogno di... Quando hai fame, cerchi”.
(co) ntinua
Volare
La conoscevo da circa tre anni, anche se non l'ho mai conosciuta.
Rita aveva una schiena ad S che le impediva di camminare, gravi problemi respiratori, un cuore ballerino. Ballerino ma indomito, vivace, ingenuo e generoso. Ho sfogliato le sue vecchie mail, ma non sono riuscito a trovarne una che fosse amara e depressa, nonostante tutti i problemi che aveva. Perché era innamorata, innamorata di Cristo.
"(…) Io sono contenta, perchè offro al Signore non i miei dolori (che non mi costano poi troppo), ma la mia gioia e la mia letizia, che viene solo da Lui, perchè, altrimenti, non ci sarebbe niente da ridere nella mia vita. Essere cristiani è una gioia immensa, non una fatica; è l'essere completamente liberi, altrimenti non mi sarei imbarcata in questa avventura che non so dove mi condurrà."
Internet, negli ultimi anni, era diventato il suo campo di battaglia; una campo che non necessita di buone gambe per poterci galoppare dentro. Era entrata in Samizdat on Line, quella associazione sui generis di blogger e simili di cui anch'io faccio parte. Si interessava di tutto, e spesso era lei la prima ad individuare e mandarci un articolo o una presa di posizione interessante. Ci ha detto in una mail: "Imito un pochino Santa Teresina; voi siete le Aquile e io un passerottino; voi volate alto e io "svolacchio" terra-terra, ma sempre di volare parliamo!"
Da una settimana era in rianimazione. Ho appreso poco fa che non ce l'ha fatta, e che ora abbiamo una santa in più che veglia su di noi.
Le sue ultime due mail sono gli auguri di buone feste. "Che la Sua tenerezza c'innamori sempre più di Lui!", scriveva.
E poi:
"Questa sera proclameremo il Te Deum, per ringraziare il Signore per tutte le grazie, la bellezza, la letizia e anche la fatica che ci ha donato; mendichiamo che anche per il nuovo anno Egli si renda sempre più Presenza e Compagno nella nosta vita. Questo mi sento di augurare a tutti e a ciascuno in particolare, carissimi e insostituibili amici di SOL!"
Io ringrazio per tutte quelle belle cose che Lui ci ha donato tramite lei, segno della Sua presenza. Per un passerotto che ormai vola in alto in alto, oltre il sole.
Babele redenta
Qualche tempo fa un nostro corrispondente, nel mezzo di una conversazione via mail, ci ha offerto uno spaccato della vita nell'istituto noto come PIO (Pontificio Istituto Orientale).
Ne riporto qui , con il suo permesso, alcuni brani.
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"Siamo conviventi… con altre 22 persone, di 14 nazionalità e 7 chiese sui iuris differenti. (…)
La nostra "banda" è la comunità di gesuiti alla quale è affidato il PIO. Dal 1917 questo Istituto studia e promuove la conoscenza dell'Oriente Cristiano (sia medio-oriente che bizantino). Qui si sono formati i fondatori delle scienze liturgiche e teologiche orientali, come Raes, Jugie, Hausherr, Spidlik, Mateos, Arranz, Taft… nomi "sacri" per gli specialisti del settore. Abbiamo due Facoltà: una di Diritto Canonico Orientale (unica al mondo) e (…) Scienze Ecclesiastiche Orientali, con tre dipartimenti: Teologia e patristica orientali (…), Liturgie Orientali e Storia dell'Oriente Cristiano.
Abbiamo solo il II e il III ciclo di studi, riceviamo studenti da tutto l'Oriente e anche quei Latini che vogliono conoscere meglio il polmone orientale, come diceva Giovanni Paolo II, di veneratissima memoria. Abbiamo ogni anno una quarantina di studenti ortodossi, cosa fondamentale per l'ecumenismo: conoscersi e studiare insieme mette le basi per il futuro. Uno dei vescovi greci oggi più attivi per il dialogo con i cattolici, per esempio, ha da poco terminato la tesi di dottorato da noi. Per non dire che l'attuale Patriarca di Costantinopoli, ad esempio, è nostro ex-alunno…
(…) Qui c'è gente che il comunismo lo ha conosciuto davvero: un paio sono nati in Siberia grazie a Stalin; un padre morto recentemente faceva parte delle truppe cosacche (…), tradite dagli inglesi (questi cosacchi avevano combattuto i russi a fianco dei tedeschi, per il loro paese) e riconsegnate a Stalin alla fine della guerra (…). Quindi, discorsi terzomondistisinistrorzi mi sono risparmiati…
Per il resto siamo molto differenti, con differenze ancora più marcate dalle diverse tradizioni ecclesiali (quando la Pasqua non cade nella stessa data abbiamo mezza comunità che festeggia e l'altra ancora in quaresima… con possibilità di augurare nel corridoio a qualcuno "Cristo è risorto!" – saluto che si usa durante tutto il periodo di Pasqua in oriente bizantino – e sentirsi rispondere "ancora no…", perché hai salutato uno che segue il calendario giuliano!).
Un momento che amo molto è il mercoledì sera, quando si fa il possibile per restare in casa e dopo cena, per un'oretta, restiamo insieme nella biblioteca di casa a chiaccherare, a scherzare a ricordare. Se c'è Samir, la serata è assicurata: non esiste alcun intrattenitore come lui. Stasera, invece, è stata la serata del nostro "nonno" (un padre di 83 anni lucidissimo che ancora dirige la nostra rivista), che ci ha raccontato un pezzo della storia dell'Istituto che molti di noi più giovani non conoscevamo. Era commovente sentire il silenzio e vedere lo sguardo attento di tutti verso il nostro "abuna" per antonomasia, dopo i fuochi di artificio di Samir.
Ci sono anche i problemi, certo: le conseguenze del peccato originale le abbiamo tutti. Però è un bel modo di servire il Signore. (…)
La lingua ufficiale dell'Istituto è l'italiano. Quindi in genere si parla italiano a lezione, negli esami e nelle tesi. A seconda del caso si può accettare un'altra lingua, in genere l'inglese o l'ucraino; italiano a pranzo e nella ricreazione dopo pranzo. La sera a cena dipende, poiché la cena è a orario libero e quindi possono formarsi circoli linguistici spontanei, in genere in inglese (gli americani, ad esempio; oppure un qualche ospite straniero). Ci sono un brasiliano e un portoghese, quindi tra noi parliamo nella lingua di Camoes. La terza lingua parlata è il russo seguita dal polacco e da un "panslavo": nel senso che cechi, slovacchi, ruteni, ucraini e spesso il serbo parlano ognuno la sua lingua e si intendono. Altrimenti il polacco e l'ucraino sono un'altra lingua franca (per loro, non per me!). Quelli di lingua araba tra loro, in genere, parlano francese (…)
Comunque tutti parlano, più o meno bene, l'italiano perché è la lingua ufficiale di insegnamento nel nostro Istituto.
Che babele, eh?
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Al che mi è venuto spontaneo commentare: "Babele sarebbe se non vi capiste l’uno con l’altro. Ma a quanto pare non è così – perché c’è qualcosa che vi accomuna tutti."
Non so voi, ma a me ha commosso tantissimo la descrizione di un luogo dove l'amore di Dio fa nascere l'amore per la cultura, per l'uomo, ad un livello che in questa nostra società dell'immediato è completamente sconosciuta. Il multiculturalismo può avere successo, può non essere Babele sono se qualcosa che unisce. E allora tutto diventa più vero; profuma di casa.
Provvidenza
Qualche tempo fa vi avevo parlato di Fabio. Oggi riparlo di lui, perché ha fatto una scelta decisamente conrocorrente. In un tempo in cui molti si aggrappano al posto fisso come ancor di salvezza per la vita, lui ha scelto di lasciare quello che ha. Perché lo spiega lui stesso in una lettera ai colleghi.
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Ciao a tutti,
Dopo 11 anni (…) è ora di partire… normalmente si lascia un lavoro per iniziarne un altro o per il raggiungimento dell’età pensionistica. Io parto per vivere appieno la scelta di condivisione ed accoglienza che mia moglie ed io abbiamo compiuto diventando Casa Famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII per l’accoglienza dei poveri sotto il nostro tetto.
La scelta definitiva è arrivata quando abbiamo accettato di accogliere Barbara (bimba di 3 anni diversamente abile) che andrà ad accrescere ulteriormente il numero delle persone che compongono la mia famiglia ( tre figli naturali, una ragazzina in affidamento ed una mamma con bambino). La sua accoglienza sarà esigente e non conciliabile con un mio lavoro a tempo pieno.
Sono enormemente grato alla ditta che mi ha permesso di avere un lavoro stabile per tutti questi anni e quindi di poter investire tempo e risorse nel sogno di dare una famiglia a chi non ce l’ha. E’ tempo di vivere appieno la vocazione che il Signore ha pensato per la nostra coppia!
Sono grato a tutti i colleghi che ho conosciuto e con cui ho collaborato in questi anni. Sempre di più mi accorgo che il clima che ho respirato in questi anni è stato molto diverso da altre esperienze lavorative … mi sono sempre sentito a casa. Ho vissuto momenti di condivisione e dialogo in profondità con diversi di voi in cui mi sono sempre sentito accolto, in primis da coloro a cui ho comunicato la mia scelta di vita.
Molti di voi penseranno: Come riuscirete a sopravvivere? … Una risposta completamente condivisibile non esiste. Una parte non trascurabile noi la chiamiamo Provvidenza che va’ ad aggiungersi alla consapevolezza di vivere dello stretto necessario dettato dal fatto che, come diceva Don Oreste Benzi, “ciò che noi abbiamo in più è ciò che manca nel piatto dell’altro”.
Diversi di voi mi hanno chiesto in che modo possono esserci di aiuto in tutto questo e quindi vi rispondo con la serenità dettata dalla consapevolezza che tutto quello che raccogliamo è destinato ai poveri. (…) Per ricollegarmi al discorso del vivere di provvidenza, vi dico che è possibile adottare la nostra casa famiglia diventando padrini e madrine, a chi fosse interessato rimando al sito www.casafamiglia.apg23.org
La nostra casa sarà sempre aperta per chiunque di voi voglia venirci a trovare e conoscere la nostra realtà e magari interrogarsi sulla possibilità di avvicinarsi all’affidamento familiare (se molte più famiglie aprissero la loro casa all’accoglienza non ci sarebbe bisogno delle Case Famiglia!).
Non dimenticherò mai gli anni passati qui e vi ricorderò nella preghiera.
Vi saluto con un abbraccio
Fabio e … Alessia, Emanuela, Maria Chiara, Mattia, Simone, Sandra, Annabel e Barbara.
***
Qualcuno potrà chiamarla incoscienza, pazzia. Ma chissà che la vera pazzia non sia in chi sceglie di non affidarsi.
Le cose dietro – parte I
Cominciano oggi quelle testimonianze che vi ho promesso nei giorni scorsi.
Fabio potrebbe guardarti dall'alto verso il basso, perché è altissimo, un vero spilungone. Laureato in matematica, l'informatica è il suo mestiere. Ma sogna di adattare l'antica casa in un paesino piemontese per allargare ulteriormente la sua famiglia sui generis. Si è seduto con noi per spiegarci perché.
D: Raccontami di te e della tua famiglia: quanti siete?
R: Per adesso siamo in sette. Tra un mese diventeremo otto, perché arriverà Simone, il nostro terzogenito. Ci siamo io; mia moglie Alessia; mia figlia Maria Chiara di sei anni; il secondo figlio naturale Mattia di quasi due anni; una bambina accolta dal 2006 che adesso ha circa dieci anni, e poi una mamma in difficoltà con la sua figlia di un anno.
In passato abbiamo accolto due infanti, due bambine, una piccolissima per breve tempo, l'altra da quando aveva quattro mesi fino a 1 anno e due mesi. Poi questo progetto è terminato perché è andata in adozione. Siamo ancora in contatto e siamo felicissimi di questo.
D: Come nasce questa desiderio di accoglienza? Da dove arriva?
R: E nato tutto da… mia moglie. Spesso, secondo me, le mogli sono quelle che tirano. Se la moglie è convinta di una cosa e il marito è abbastanza aperto, si possono portare avanti si possono portare avanti delle cose grandi, dei progetti grandi. Quindi in questo caso è stata mia moglie a premere sull'acceleratore. Adesso è a casa che fa la mamma ma era assistente sociale, e nel suo lavoro era comunque vicino a quella parte della società che sono le persone più povere.
Quindi è nata in noi questa voglia di non fare solamente le abituali cose che fanno in tanti, di stare in parrocchia e quindi di andare noi dai poveri; ma di portare invece un po' di questi poveri da noi, in casa nostra. Abbiamo poi trovato una grande assonanza con la comunità di cui ora facciamo parte, cioè la Papa Giovanni XXIII che è nata da don Oreste Benzi. Piano piano ci siamo avvicinati a questo mondo che punta proprio sull'accoglienza all'interno delle nostre case.
Abbiamo iniziato il percorso di verifica vocazionale della comunità Papa Giovanni nel 2006, quando abbiamo iniziato la nostra prima accoglienza. E da lì questo desiderio, che prima era solamente di accogliere qualcuno all'interno della nostra famiglia e per noi di continuare a fare la nostra vita: avere figli naturali, il lavoro, le vacanze, e tutte quelle cose che la classica famiglia fa qua in Italia, questa voglia di accoglienza si è ampliata sempre di più. Si è ampliata fino a voler diventare, come sta diventando in questi ultimi anni, diciamo, una voglia di fare proprio dell'accoglienza la parte preponderante della nostra vita. E quindi di arrivare a vivere per l'accoglienza. Vivere, ovviamente, all'interno del rapporto grande che c'è tra marito e moglie, nell'amore che bisogna dare ai propri figli. Ma, tolte queste due grandi priorità, subito dopo viene l'accoglienza dei poveri.
D: Ma perchè?
R: Perché ovviamente – no, "ovviamente" non si può si può dire – per noi vi è tutto il discorso cristiano. Il discorso che, per noi, secondo quello che è il percorso di vita nella nostra Comunità, il motivo per cui si fanno determinate accoglienze è perche Dio ha visto in noi persone che potevano portare avanti questo suo progetto. E quindi tutta l'accoglienza che noi facciamo è rivolta non tanto al dare una mano a loro quanto al rispetto del progetto di Dio su di noi. Il vivere all'interno di una comunità riconosciuta dalla Chiesa ci ha permesso di essere sicuri di questo; abbiamo tutta una serie di strumenti per capire effettivamente dov'è che il Signore ci vuole e quindi essere sicuri di dove spendere la nostra vita, o come si dice in comunità "di non correre invano". Di non fare delle cose tanto per farle ma non per il motivo reale. Che non è quello dell'accoglienza in sé, ma quello di seguire il progetto di Dio, che ama tutti noi. Noi dobbiamo essere strumento di quest'amore.
Quello che ho descritto è la via tramite la quale io e Alessia siamo sicuri di cosa il Signore vuole per noi.
D: Sono provocatorio. Tu dici sicuri, ma sicuri di che? Chi vi da questa sicurezza, visto che potrebbe essere un'idea che vi siete fatti o che cercano di imporvi?
R: Bella domanda. Infatti questo è il più grande problema. Ovviamente nella fede cristiana non c'è niente di sicuro, di tangibile. Tutto è lasciato, come dire, alle possibili diverse interpretazioni, tutto è lasciato non tangibile, nessuno ci dà la sicurezza che quello che chiamiamo fede sia reale. Il fatto di vivere all'interno di una comunità ci permette di avere vicino altre persone che stanno scommettendo, anche loro, la vita in questo. E' allo stesso modo si potrebbe dire ad un cristiano "perché sei cristiano, che sicurezza ti dà? Non è che perché sei cristiano ti stanno inculcando qualcosa che non è reale?". Certo che il dubbio ce l'avremo fino alla fine. La forza però c'è, il fatto di essere in tanti ad avere la stessa fede, questo ci aiuta. Non ci dà la sicurezza, perché ad esempio i nostri genitori non sono assolutamente d'accordo. Infatti ci hanno detto in diverse occasioni che loro avrebbero fatto diversamente. Speravano per i loro figli, io e Alessia, una vita diversa, una vita tranquilla, in cui si lavora, bisogna lavorare perché è importante, puntare molto sul lavoro e sull'avere dietro qualcosa di tangibile, avere dietro delle cose. Invece noi non cerchiamo delle cose, cerchiamo degli affetti e di portare l'amore di Dio alle persone che incontriamo. E' questo ci rende felici. Perché prima di tutto noi vogliamo essere felici e non vediamo la possibilità per noi di esserlo fuori da questa realtà e fuori dall'essere totalmente disponibili verso gli altri. L'unica cosa che ci rende felici è questa: il fatto di donarci completamente.
Ovvio che siamo agli inizi e quindi siamo molto entusiasti. I passi da fare sono tantissimi, però l'idea di essere totalmente per gli altri e nulla per noi ci spinge molto a fare ciò che facciamo. Ci spinge e siamo felici; quando ci riusciamo siamo felici.
D: Quindi siete felici?
R: Sì.
D: Quindi ne vale assolutamente la pena?
R: Assolutamente.
Vai alla seconda parte dell'intervista
Le cose dietro – parte II
Vai alla prima parte dell'intervista
D: Vuoi parlare di altri progetti?
R: Noi siamo nell'ottica di chiedere un impegno anche ad altre persone, e questo significa mettersi in discussione. Spesso cerchiamo fondi anche perché molte delle attività che noi facciamo come Comunità sono fuori dall'Italia, in paesi di missione e lì le risorse non sono mai abbastanza.
Sabato abbiamo fatto una raccolta fondi, "Un pasto al giorno", in cui diamo la possibilità a più persone di rendersi partecipi dell'aiuto che la comunità dà nei luoghi di missione, in cui i poveri sono alla porta. Portando sempre l'ottica dell'accoglienza, del portare i poveri in casa nostra, in questo caso nelle missioni, per renderli autonomi, per dare loro aiuti – nello specifico anche solo per permettere a loro di continuare a vivere.
E' proprio questo lo stimolo grande che don Oreste Benzi ci ha dato nel momento in cui ha aperto la Comunità al mondo intero. Il 20% della popolazione mondiale vive per sé stessa e consuma l'80% delle risorse del pianeta. L'ottica dell'andare verso il povero ci deve essere a 360 gradi, in Italia come altrove.
Questo accogliere, questo andare nei posti di missione è un qualcosa che aiuta certamente le persone africane, ma aiuta soprattutto noi, a diventare un po' più consapevoli del mondo in cui viviamo. Permette a loro di sopravvivere e di non essere più miseri, aiuta noi ad avvicinarci a Dio perché, come diceva Don Oreste "l'unica condizione per avvicinarci a Dio è il fatto di essere poveri. Il ricco ha davanti a sé il denaro, quello è il suo dio, il misero non ha tempo di pensare a Dio, perché non riesce a soddisfare neanche i bisogni primari. Il povero ha davanti a sé Dio; dobbiamo diventare tutti poveri."
D: Con i figli tuoi com'è, loro patiscono il vostro condividere il tempo con altri?
R: Il tempo che tu dai a queste accoglienze in teoria è tempo che tu togli ai tuoi figli e questo è vero, perché il tempo alla fine bisogna pur suddividerlo tra le persone.
Noi pensiamo che il tempo che viene passato a far capire ai tuoi figli che è importante vivere per gli altri non sia buttato. Si passano dei valori in questo modo che sono assai più importanti di quei 5-10 minuti magari condivisi con altre persone. Noi cerchiamo di stare a casa il più possibile, di passare il più tempo possibile con i nostri figli. Far capire loro che anche i figli degli altri non sono diversi da loro, è giusto che tutti abbiano una famiglia. Questo è uno delle profezie più importanti di Don Oreste, che chiunque ha bisogno di una famiglia, non solo il minore, anche l'adulto in difficoltà, anche la ragazza di strada, chiunque.
Ha bisogno di sentirsi in famiglia, la famiglia è l'unico modo per superare tutta una serie di problematiche anche passate che uno può aver vissuto. Questo sentimento è una delle cose, se non l'unica, che dobbiamo trasmettere ai nostri figli, per farli diventare dei veri adulti. Tutti strumenti per affrontare il mondo. Insegnando che la felicità non è data dall'avere tutto subito.
L'altro aspetto fondamentale che noi viviamo è quello del vivere in povertà. Limitarsi alle cose che noi abbiamo: le vacanze si fanno nel posto in cui si possono fare, si spendono i soldi necessari per vivere, per la scuola, per fare un po' di sport; ma il lusso si cerca di rimuoverlo e restituire alle persone che ne hanno più bisogno. Ci sono diverse famiglie – compresa la mia – in cui si tiene solo la parte di stipendio che serve e tutto il resto lo si dona alla comunità, che lo utilizza per i bisognosi.
Questo è quanto vogliamo passare ai nostri figli. Poi loro faranno le loro scelte, seguiranno la nostra strada oppure no, ma va benissimo così. Avranno imparato, quando saranno adulti, che non bisogna vivere solamente per sè stessi.
Vivere felici
A volte noi cattolici ci perdiamo dentro gli affanni di difendere quello in cui crediamo e ci dimentichiamo di quanto sia bello quello in cui crediamo.
Del respiro chè dà amare Cristo, come l’aria di montagna in una mattina tersa, che ti riempie i polmoni di vita e gli occhi di bellezza.
E così mi sono sentito ieri, ascoltando Anna raccontare dei suoi ultimi cinque anni.
Anna fa parte dei memores domini, adulti che vivono la memoria di Cristo nel mondo del lavoro, e che dimorano insieme in piccole comunità chiamate "case".
Cinque anni fa una sua amica le chiede di venire con lei per aiutarla nella "casa" di Città del Messico, dove lei vive da un anno. Anna accetta.
L’impatto è fortissimo: è tutto diverso, alberi diversi, animali diversi, gente diversa anche come carattere da tutto quanto ha conosciuto prima. La città è una megalopoli da 22 milioni di abitanti, inquinata, violenta. Anna non sa lo spagnolo. Eppure in poco più di un anno riesce ad intessere rapporti, insegna in Università, ci sono grandi possibilità professionali, le cose procedono bene. Con loro, nella casa, ci sono altre tre ragazze messicane. A una di queste viene diagnosticato un tumore, inizialmente al seno, ma che presto si diffonde nelle ossa. Questa ragazza decide di tornare a Campeche, nel sud del Messico, nello Yucatan, da dove è originaria. Le due italiane, per tenerle compagnia, decidono di seguirla. Si tratta di lasciare tutto quello che si è costruito per andare in un posto sperduto, con un clima orribile (40 gradi e umidità bestiale tutto l’anno), senza grandi prospettive di lavoro…per stare dietro ad un volto.
I due anni successivi sono faticosissimi: mancano i soldi, la malattia peggiora. Loro si inventano mestieri, cucinano e vendono pizzette e creano doposcuola. Intanto Roberta, l’amica ammalata, passa dalle stampelle a tripode alla carrozzella. Ha le ossa tanto fragili che si rompe il femore sedendosi, e quindi rimane immobilizzata in un letto. Dice Anna: "All’inizio chiedevo il miracolo, e mi arrabbiavo perchè non veniva. Poi ho capito che il miracolo Gesù lo fa quando vuole dimostrare la Sua presenza, e mi sono pacificata. Non ci sarebbe stato nessun miracolo perchè non ce n’era bisogno: la Sua presenza lì era evidente". Roberta muore alla fine dello scorso anno. Dice ancora Anna: "in quella casa non si respirava mai la morte".
Quanti di voi, di noi, avrebbero lasciato tutto per assistere una estranea conosciuta pochi mesi prima?
Pensate però che tutto questo sia stato uno sforzo, una sofferenza? Lei dice: "Nella mia vita voglio essere felice. E sono veramente felice: è bello vivere". Guardandola si capisce che è vero.
Anna non ha lasciato tutto, non è partita per un’idea, ma per un volto. Il volto delle sue amiche in cui si rifletteva quello di Cristo. "E’ un educarsi a dire di sì. Quando c’è qualcosa da fare, non puoi aspettarti che siano gli altri a farlo per te. Sei tu che devi dire sì."
Amici lettori, aprite gli occhi: qui c’è qualcosa che non immaginate, la possibilità di essere felici!
Un silenzio pieno di stupore
Oggi non scrivo io. Oggi pubblico, con il consenso degli interessati, una lettera di una cara amica.
***
(…) SABATO il primo intervento alla FRATERNITA’ è stato quello della S., cognata della M., che ha accolto in casa sua e si è presa cura della M. negli ultimi mesi della sua vita. La S. ha cominciato dicendo: "Forse questo non c’ entra molto con la FRATERNITA’ di questa sera (ci trovavamo sulla lezione del SABATO MATTINA agli ESERCIZI) ma IO DEVO RACCONTARVI DELLA M.". E poi ci ha raccontato, attraverso alcuni episodi, quello che avevano vissuto.
Per esempio diceva che quando è stato evidente che per la M. non c’ era più niente che si potesse fare "medicalmente" per guarirla, un Sacerdote, Don G., aveva parlato con la M. e le aveva detto tutta la verità sulla sua malattia. (…) Raccontandole di Santa Teresina del Bambin Gesù che era stata felice quando aveva saputo che stava per morire perché aveva detto che dal Cielo avrebbe potuto fare molto più del bene ("farò scendere sulla terra una pioggia di rose") ha detto a M.: "Così devi fare anche tu". Poi ha fatto pregare a M. l’ Angelus e le ha ricordato il "sì" di Maria e che tutta la Salvezza sarebbe dipesa da quel "sì" e poi le ha detto: "Il Signore ti sta chiedendo la tua vita e aspetta il TUO sì". E M. gli ha risposto: "sì, VA BENE e grazie per questo tuo aiuto". (…) Ma alla sera stessa, parlando con un amico (…) che le diceva: "Noi continuiamo a pregare, non molliamo" M. ha risposto: "Anche io non mollo; farò di tutto per guarire e spero proprio di guarire". Faceva già molto fatica a parlare, parlava praticamente a monosillabi. La S. diceva che la M. le aveva insegnato che non c’ era nessuna divisione fra ACCETTARE LA VOLONTA’ DI DIO e comunque il desiderio umano e il tuo attaccamento alla vita, cioè che ACCETTARE LA VOLONTA’ DI DIO non toglie niente alla tua umanità.
Poi la S. diceva che la M. le aveva insegnato anche che NON E’ VERO CHE A UN CERTO PUNTO NON E’ PIU’ DIGNITOSO VIVERE e che E’ MEGLIO MORIRE. Ci ha raccontato che la M., fino all’ ultimo, si è alzata per mangiare a tavola con loro, oppure che al mattino si lavava e poi le chiedeva di AIUTARLA A VESTIRSI, perchè "di giorno si sta vestiti e se gli amici vengono a trovarmi devono vedermi "messa bene"" e alla sera, quando la M. decideva che "era ora di andare a letto" ("che" diceva la S. "fa ridere a dirlo perchè la M. era SEMPRE a letto") e magari quest’ ora era MEZZANOTTE, le chiedeva di aiutarla a svestirsi (quando la M. non ce la faceva più da sola) e a mettersi la camicia da notte. "A me" diceva la S. "avrebbe fatto più comodo se la M. fosse rimasta sempre in camicia da notte, ma ho imparato a rispettare questo suo modo di vivere la malattia." Oppure la S. ci diceva che, quando la M. era peggiorata e lei non sapeva coma fare per aiutarla a girarsi nel letto e metterla comoda, aveva telefonato e una sua amica CIELLINA infermiera per chiederle come fare e questa le aveva risposto: "ARRIVO!!" e "si è piazzata a casa mia tutto il pomeriggio, poi è andata a casa sua a preparare la cena per la sua famiglia e poi è ritornata da me dopo cena ed è stata lì a casa mia fino a che mi ha fatto vedere come preparare la M. per la notte, ed era quasi MEZZANOTTE !!!!!!!!".
(…) Vivere il presente, cioè vedere M. come una che vive e non come una che sta morendo cambia l’ atteggiamento con cui guardi il malato e ti rende disponibile a fare tutto ciò che serve oggi senza pensare che sia inutile ("Una flebo di albumina, diceva la dottoressa che veniva a curarla in casa, ma E’ INUTILE, tanto sta per morire e io le rispondevo: non E’ INUTILE, ADESSO la fa stare meglio…"); al domani ci pensa il Signore e VIVERE IL PRESENTE ti fa GUSTARE l’ istante che vivi, anche se stai accompagnando una persona a morire.
Sapete che dopo l’ intervento della S. (che ci ha parlato per quasi mezz’ ora) ci sono stati 5 minuti e più di SILENZIO …….. Un SILENZIO pieno di STUPORE.
La compagnia di GESU’ e della Sua CHIESA (che ha il volto concreto dei nostri amici) è quello che ha permesso di vivere così alla M. e alla S. e a tutti quelli che sono passati per la loro casa (il MIO PRIORE diceva che sembrava di entrare in un SANTUARIO), che ha permesso alla mia carissima amica N. (che è andata in PARADISO quasi un anno fa, vi ricordate, vi ho parlato di lei) di preparare i suoi figli al distacco e di lasciarli dopo la sua morte non dico LIETI, ma sicuramente non disperati e che ha permesso a me, a mio marito e alle nostre figlie di fare compagnia al mio papà malato di ALZHEIMER e di accompagnarlo "fino sulla porta del PARADISO".
Io credo che sia proprio questo quello che certi che ti scrivono nel blog, purtroppo per loro, non hanno incontrato (o forse, peggio ancora, NON VOGLIONO INCONTRARE).
L.M.
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Vorrei fosse solo chiara una cosa: come traspare evidente da questa lettera, il cristianesimo è vivere la vita meglio in questo mondo. Poi c’è il prossimo, ma questo è un sovrappiù.