Dopo
Mi sono sfasciato un piede, ho un occhio che non vede quasi più, il mio cuoricino batte anche quando non dovrebbe e i denti residui mi stanno abbandonando. Sono sano, eh, sono sano, o quasi. Non sto poi così male, caviglia a parte. Come cantava Guccini, sono “i piccoli malanni, sempre più numerosi”.
Noi tendiamo a credere alla nostra immortalità. Non siamo davvero convinti che l’universo andrà avanti in nostra assenza. Il fatto stesso di non esserci più è relegato quasi sempre in un cassetto che tendiamo a non aprire. E poi, in fondo, che ci importa di cosa accadrà al mondo dopo (se pure questo dopo esiste)? Futuro bello o brutto, noi non ci saremo. Il nostro compito, ammesso che ne avessimo uno, è terminato.
Il materialista si ferma qui. O almeno così dice, perché neanche lui riesce perfettamente a convincersi che dopo non ci sia davvero niente. Tutti abbiamo delle tombe da visitare, reali o virtuali.
Chi invece crede, o dice di credere, in qualcosa dopo, spesso trova molto difficile adeguare a esso il prima. Sì, anche a noi uomini religiosi sembra irreale. Il quotidiano stillicidio di decessi, l’improvviso venire meno di volti conosciuti e sconosciuti intacca appena la nostra scorza. Dimostrazione, se fosse necessaria, che siamo fatti per la vita e non per la morte.
Che ci sia un dopo, ne sono certo. Così come sono certo che questo dopo non entra molto nei miei pensieri, nonostante gli acciacchi. Il teschio (finto) che tengo sulla mia scrivania però mi guarda con le orbite vuote o quasi, e sogghigna. Non è che possa fare diversamente. Mi ricorda che la mia mortalità è un fatto indiscutibile, e sono tenuto a dargli ragione. C’è un dopo al quale dovrei pensare, perché l’eternità è lunga, e sarebbe sciocco buttarla via.
Va bene, ci penserò, prometto, sciocco mortale qual sono. Dopo.

La conoscenza è un’avventura
Ragionavo qualche ora fa con un lettore sul fatto che il post di un blog è limitato per natura, esattamente come chi lo scrive. Nello specifico, io.
Per sviscerare certi argomenti altro che un post, ci vorrebbe. Sarebbe necessario un libro, e non sarebbe neanche lontanamente sufficiente. Le biblioteche di tutto il mondo lo testimoniano.
E’ una cosa di cui mi sono accorto quando sono passato dallo scrivere racconti alla forma del romanzo. Il protagonista di un racconto è per forza di cose un schizzo impressionistico, un ritratto al carboncino tratteggiato lungo la via. Se lo spazio si allarga, non ci si può accontentare di questo. Se si vuole che il proprio scritto prenda vita occorre scendere più in profondità, aumentare la definizione dei particolari, dare spessore, colore, anima al tratto sul foglio.
In un racconto, il personaggio è il mezzo per raccontare una tesi. In un romanzo deve acquistare carattere e personalità autonome, deve uscire dalle pagine per iniziare a vivere nella testa di chi legge. Ciò vale anche per il tema di un post, se lo si vuole far crescere, se si desidera che non sia un lampo nella notte ma una luce che illumini.
Il rischio è che il personaggio cominci a vivere di vita propria, reclami un suo posto, un seguito delle sue storie, lo esiga. Può essere un rischio che vale la pena correre, se c’è qualcosa da dire, qualcosa da fare. La conoscenza è un’avventura, non sai dove può portarti, ma ci vai.

Definizioni
Da qualche tempo a questa parte c’è stato un certo ritorno di popolarità delle definizioni. Una definizione è, etimologicamente parlando, qualcosa che de-limita: uno steccato che definisce ciò che è dentro e ciò che è fuori. Aiuta a chiarirsi: spesso quando si parla di un argomento si ha una certa idea in testa, ma quando si tratta di spiegare questa idea si entra in confusione. Una cosa sono le associazioni che fa il nostro cervello, un’altra la realtà. Se non siamo capaci di definire ciò di cui parliamo, abbiamo probabilmente qualche problema.
In un primo momento c’è stata la polemica sulla definizione di donna. Un dizionario, incurante del principio di non contraddizione, l’ha ampliata includendo anche ciò che donna non è. Se bastasse il desiderio a definire la realtà, ognuno di noi cosa sarebbe? Quella stessa definizione moltissimi personaggi importanti, tuttologi e politici, non sono riusciti a fornirla. Non perché non abbiano chiaro cosa sia una donna, ma perché la loro ideologia cozza così pesantemente con ciò che è vero che risulta impossibile esprimerlo in parole coerenti. A questo proposito, mi è piaciuta molto un certo scambio verbale tra un intervistatore e una persona che asseriva che solo le donne potevano dire cos’è una donna. L’intervistatore le ha chiesto se era un gatto, e lei ha risposto no. Quindi le è stato chiesto: “Sa cos’è un gatto?”: è seguita la fuga.
Ma non è solo la confusione a causare l’incapacità di definire; è anche la paura dei piccoli guardiani della rivoluzione e dei loro burattinai. Quelli che si fanno chiamare i woke.
Ed ecco un altro termine che qualcuno ha difficoltà a definire, “woke”. In inglese woke significa sveglio; in una certa maniera, è l’equivalente contemporaneo dell’illuminato o del sessantottino. La nuova iterazione dello gnosticismo, cioè il pensare di saperla più lunga di tutti gli altri. Non importa cosa è, importa cosa credi che sia. Il woke odia la realtà, la nega e farà tutto il possibile per cambiarla nell’utopia da lui immaginata. Come i rivoluzionari dei tempi andati il woke non ha un pensiero originale, ma ripete senza capirne le conseguenze il mantra instillato dal potere, fino all’autolesionismo. Come per le guardie rosse, i giacobini, la gioventù hitleriana e ogni altro gruppo di simile tipo, è convinto di essere parte di un “grande movimento di persone con empatia di base che sono compassionevoli, decisi a smantellare le ingiustizie e fare del mondo un posto migliore per tutta l’umanità“. Se non sei d’accordo con la loro definizione d’ingiustizia ti saltano addosso come compassionevoli cani rabbiosi e ti costringono a tacere, fino a eliminarti se non ti adegui. Spesso nemmeno pentirti serve, perché rimani il nemico. Se cerchi di agire seguendo la ragione sei proscritto e illegale; o adori il loro dio gettando incenso nel braciere o cercano di arrostirti su di esso.
Come tutti i suoi precedenti, anche il movimento woke è autodistruttivo. Si lascerà dietro sofferenze e distruzione, poi imploderà. E i suoi sostenitori, svegliatesi dal sonno, andranno in cerca del prossimo imperatore.

Figli di un dio meccanico
Un lettore mi ha girato una sua riflessione in parte suscitata dal mio post “Figli di bot“. Ve la offro, seguono due parole mie:
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Una pagina.
In appena una pagina, un Tribunale italiano ha rigettato il ricorso proposto da una docente contro la sospensione lavorativa conseguente alla inosservanza del famigerato obbligo vaccinale.
Una pagina in cui il Tribunale ha asserito che la Consulta, con le sentenze 14, 15 e 16 del 2023 avrebbe già detto tutto quello che c’era da dire, e non serviva una oziosa perdita di tempo nel prendere in considerazione le motivazioni del ricorso e le contestazioni della ricorrente alle palesi falle logiche, prima ancora che giuridiche, delle citate sentenze.
Ecco, il Tribunale del Lavoro rimandava “alle suddette pronunce rese dalla Corte Costituzionale, dalle quali lo scrivente giudice non ha certo motivo né possibilità di discostarsi”, dimostrando di non conoscere la regola secondo cui “le sentenze di inammissibilità e infondatezza della Corte Costituzionale non hanno alcun effetto vincolante, a livello interpretativo, per i giudici di merito” (Tribunale Militare di Napoli, sent.10.3.2023).
Il Tribunale del Lavoro, perciò, richiamando sic et simpliciter le dette sentenze, si è limitato a prendere una via comoda che non ha richiesto alcuno sforzo critico sia del quadro normativo sia dei dati della “scienza ufficiale” supinamente fatti propri dalla Consulta.
Il Tribunale (ma anche la Corte Costituzionale, in misura minore) non ha fatto altro che buttare fuori “nel nome del popolo italiano” il concentrato di assurdità logiche, di aporie giuridiche, di abnormità normative e di sesquipedali contraddizioni scientifiche che hanno caratterizzato questi anni di follia istituzionalizzata.
La similitudine con le cosiddette “intelligenze artificiali (IA)” è palese pensando all’accostamento con quei programmi (bot, algoritmi etc.) che qualcuno vorrebbe estendere a settori come la medicina e la giustizia: voilà, un bell’algoritmo che ti dice se vincerai la causa o di cosa soffri o soffrirai è molto più rapido ed efficiente di un avvocato o di un medico, perché si tratterebbe solo di elaborare dati più velocemente ed efficientemente di un cervello umano.
Oh, sì, molto velocemente ed efficientemente, come richiesto dalla nostra società, così improntata al pragmatismo, a obbiettivi freddi ed agli schemi risolutori offerti da ricette e protocolli di facile reperimento.
C’è un problema, però.
Queste I.A. – cui vorrebbero attribuirsi finanche capacità artistiche o letterarie – sono tutt’altro che intelligenti.
Difettano di fantasia e creatività, di apertura al mistero e al trascendente, di compassione e senso di giustizia, di ricerca del bello e del vero, di capacità critica, così come non potranno mai provare empatia nei confronti di colui al quale diagnosticano una malattia o subisce una ingiustizia.
Ecco, in questi “anni pandemici” il comportamento di buona parte del personale sanitario e degli operatori del diritto si può assimilare a quello dei bot e degli algoritmi in questione.
Viene in mente (per citarne solo uno) il protocollo “paracetamolo e vigile attesa” che la stragrande maggioranza dei medici ha applicato come dei (ro)bot senza coscienza, obbedendo agli ordini di programmatori che, nell’immettere le nuove stringhe di comando, hanno fatto tabula rasa delle loro pregresse conoscenze mediche.
Si pensi anche allo stravolgimento dei fondamenti costituzionali e delle basi del diritto operato dalla Corte costituzionale, secondo cui obbligo e libertà possono coesistere nella stessa norma in una meravigliosa sintesi degli opposti diventata per tutti i giudici una “ricetta facile”, un “protocollo di comodo” cui appigliarsi per evitare di ragionare e argomentare compiutamente sulle questioni loro sottoposte da cittadini assetati di giustizia.
Come degli algoritmi, questi giudici hanno restituito all’esterno ciò che è stato messo loro dentro, rinunciando alla ricerca (non troppo ardua, invero) della verità e spegnendo le funzioni alte della ragione, proprio ciò che distingue un essere umano da una macchina.
I.A. è già tra noi
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Avv. Giovanni Calapaj
Avvocati Liberi
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Al di là del caso particolare, la considerazione mi fa venire in mente un commento che ho letto a riguardo dei “Twitter Covid files“, che illustrano con dovizia di dati come la verità sia stata consapevolmente nascosta per… fate un poco voi. Il commento diceva
La macchina che è stata fabbricata per la efficiente produzione dell’Utopia ha la totale licenza di uccidere. Niente è sacro, e le sue uccisioni non sono omicidi ma “liquidazioni”. Questo è il linguaggio liturgico della religione dell’Anticristo, la religione che mette l’uomo al posto di Dio.
Fa pensare che chi vorrebbe l’uomo al centro di tutto, per portare a termine il suo progetto debba negare l’uomo vero, la sua umanità; che il nuovo giudice e creatore sia una macchina senz’anima, e quindi senza amore.

Il senso della notte
Proprio mentre sto scrivendo queste righe per tutta la Terra è l’equinozio di primavera. Notte e giorno si bilanciano perfettamente.
Non sempre è così, lo sappiamo bene. Accada due volte all’anno, per un breve momento. Per il resto del tempo la luce o le tenebre dominano.
Domenica, nonostante la festa di san Giuseppe, è stato un momento di tenebra. Tanti momenti di buio, dai più tragici ai più banali: una giovane vita spezzata all’improvviso, la perdita di molte ore di lavoro per un accidente, un caro animale travolto e ucciso, dolore per malanni, rabbia e ira e sconforto.
E’ in giornate come questa che ci rendiamo conto, con disagio e un tremito di terrore, che la realtà non la decidiamo noi. Possiamo progettare come le cose dovrebbero essere, possiamo lamentarci del perché non sono come vorremmo, ma il fatto, il reale, il cuore dell’esperienza e di ciò che accade è al di fuori del nostro controllo.
Siamo in un’epoca in cui l’uomo vorrebbe dettare ciò che la realtà è, fino nella sua espressione fisica e fisiologica. Quindi è costretto ad una menzogna continua perché deve negare che le tenebre esistano. Per lui, questa notte è solo terrore. La creatura può rifugiarsi presso suo padre, mentre l’uomo che si vuole fare da sé è un essere immaginario che non ha un luogo a cui tornare perché non vuole appartenere a niente.
Come cristiani, dovremmo sapere che la realtà è simbolica. Parlando di sé, essa indica qualcosa che è al di fuori di sé. In altre parole, ogni essere e ogni avvenimento ci colpiscono e ci colmano di stupore nella misura in cui indicano e rimandano ad una trascendenza, a qualcosa che sta oltre, più in alto, a un senso nascosto. Nella misura in cui sono segno.
Ciò che non è segno non stupisce perché mostra solo ciò che già conosciamo, il banale, ciò che è caduco e senza gusto.
Forse il senso della notte è proprio scuoterci dal torpore, dalla nostra meschina illusione di onnipotenza. E pregare che torni il giorno, e la luce, che non ci sappiamo dare da noi.

I vescovi, questi dilettanti
E’ sempre entusiasmante parlare di argomenti caldi come l’Indice dei libri proibiti che la chiesa oscurantista e retrograda mantenne in vigore per secoli.
La scusa ufficiale era che i libri eretici, oppure che ospitavano punti di vista i quali potevano trarre in inganno il lettore, fossero pericolosi per la salute dell’anima. Esposto alla menzogna, l’ingenuo e il semplice potevano scambiarla per verità, con nefaste conseguenze. La Chiesa si credeva madre dei suoi figli, e come tale vincolata a proteggerli; da rischi esterni e anche da loro stessi. Come una mamma, certi libri in casa non dovevano entrare.
Diciamocelo chiaramente, non ha mai funzionato granché. I libri messi all’Indice diventavano appetibili perché proibiti, e quindi non correvano il rischio di andare perduti. Il divieto, che era poi la scomunica, era aggirato in ogni maniera possibile, e agli autori era lasciata ogni possibilità di emendare in segreto il loro testo. Con il moltiplicarsi dell’offerta, con centinaia di libri pubblicati ogni giorno, stare dietro a tutto ciò che era definibile come “cattiva stampa” è poi diventato impossibile. Un po’ come le madri moderne che vedono sconsolate il figlio con il telefonino guardare chissà cosa.
Però, che brutta figura la Chiesa! Che macchia per la sua reputazione! Cose del genere oggi non potrebbero mai accadere.
Ad esempio, che in Inghilterra certe opinioni non si possano non dico scrivere, ma pronunciare o anche solo pensare è sicuramente una notizia falsa, e come tale non va propagata, salvo in Inghilterra dove è meglio esserne consci per evitare di finire nei guai.
Negli Stati Uniti se chiami qualcuno con il pronome sbagliato sei socialmente defunto. E buttare al macero Huckelberry Finn o editare i libri di Dahl per togliere ciò che è scorretto per il pensiero dominante non deve essere visto come una censura, ma come un mezzo di promozione sociale. Per non parlare dello sforzo governativo USA per tacitare chi aveva opinioni differenti sul Covid o, se è per questo, sul riscaldamento globale; anche questa una notizia diffamatoria, fuorviante e quindi da tacere.
Tutto molto differente da quanto avveniva un tempo: se l’Indice era pubblico, qui è più un pissi-pissi. La lezione è stata imparata: non fare elenchi, colpisci senza avvertire con la nuova scomunica.
In Italia certamente non poteva accadere, no? D’altra parte, leggere Mein Kampf (oggi) sarà legale, ma provatevi a farlo o citare Mussolini. Certamente ci sono delle ragioni valide per astenersene, ben più valide di quelle addotte dai vescovi oscurantisti di sei secoli fa. Erano proprio i nazisti che bruciavano i libri, come adesso fanno gli ucraini con i volumi in russo, ma certo per questi ultimi il caso è differente.
La discussione sui libri però sa tanto di passato. Oggi, chi li legge più? Sono i siti internet a trasmettere idee. E chi può bloccare un sito internet, rimuovere un account di social, oscurarlo?
Tutti tranquilli, quindi, non siamo più nel ‘500. I vescovi, questi dilettanti.

Il difficile equilibrio
E’ dura essere padri, è dura essere madri. Un padre, una madre, devono fare da scudo ai loro figli; perché un bimbo non capisce, non capisce tutto. E’ facile ingannare un bambino. I bambini si mettono nei guai.
Quindi deve essere protetto dai genitori. Sì, ma quanto protetto? Se tieni un bimbo troppo al riparo, se non gli permetti di entrare in contatto con le malattie, lo sporco, il pericolo, ciò che non candido e puro, quando incontrerà tutte queste cose – e le incontrerà – non sarà capace di tenere loro testa. La malattia si scatenerà, perché mancano gli anticorpi; un figlio troppo protetto è debole. Un figlio non protetto soccombe di fronte a ciò che è più forte proprio come uno troppo protetto.
E’ duro essere genitori, bilanciare il desiderio che niente possa entrare a fare del male e il desiderio di crescere qualcuno che possa affrontare chi viene a fare del male. Avere una responsabilità, anzi, di più, amare.
Il rischio dell’educare, il rischio di scegliere, ancora una volta il rischio di essere uomini.

L’apice della distruzione
Occorre consumare, dicono. Che consumazione più radicale c’è che distruggere? E quale metodo più veloce di distruggere di una guerra?
Non è ridurre le città e le cose a fuoco e polvere, però, l’apice della distruzione. Quel titolo spetta alla devastazione dell’essere umano, al massacro interiore, alla sua trasformazione in un deserto di morte.
Non c’è bisogno di una guerra per desertificare un uomo. Basta il costante sgocciolio del veleno della menzogna per consumarlo.

La scelta
Da alcuni commenti che ho ricevuto sul post di ieri, mi sono reso conto che posso avere dato l’impressione che i cartoni animati giapponesi, “anime”, siano tutti protesi ad avvelenare con la loro perversità le giovani menti, e quindi andrebbero proibiti ai minori e, se possibile, anche ai maggiori.
Non nego che tramite alcuni anime si cerchino di instillare concetti dalla cultura dominante. Non per niente si chiama cultura dominante. Se parliamo di quella giapponese, poi, per molti versi è ben lontana dalla nostra. Per esempio nel fatto che i cartoni animati non sono roba da bambini, concetto che con fatica sta entrando anche nelle nostre teste occidentali. Da parte mia lo so da un pezzo. Nel 1989, la Sirenetta impazzava sugli schermi cinematografici, e la Disney si vantava della difficolta tecnica della scena della tempesta. Io ero andato da poco a vedere “Akira“, il primo film d’animazione giapponese a grande budget a giungere in occidente, eravamo in sei in sala. C’è una sequenza in cui due personaggi salgono in ascensore sullo sfondo di palazzi, e gli edifici avevano centinaia di finestre tutte una diversa dall’altra, altro che tempesta. Dal punto di vista tecnico, Akira umiliava letteralmente la Sirenetta in praticamente ogni scena. Akira è iperviolento, cinetico, immaginifico, splatter, con una trama complessa e adulta. Lì ho capito che c’era qualcosa di più in Giappone di cartoni di pastorelle alpine e robot; ho compreso che ci stavano lasciando indietro.
Ma c’è anime e anime, come c’è libro e libro. Fare di tutta l’erba un fascio e rifuggirli equivale un poco a dire che siccome ci sono i libri di Moravia, D’Annunzio e, il Signore ci scampi, Boccaccio che sono variamente licenziosi (mi sono tenuto largo) allora i libri in generale sono da vietare.
Se entrate in una qualsiasi libreria e scorrete i volumi in essa contenuti scommetto che scoprirete che la stragrande maggioranza, a parte forse le ricette di cucina, ha qualcosa di moralmente opinabile in essi. Hey, persino nella Bibbia ci sono certi episodi che potrebbero sembrare la trama di un film porno, figurarsi nel resto. Io lo so bene; nella mia adolescenza ho saccheggiato la biblioteca locale e alcune delle mie letture erano decisamente inadatte a un giovane della mia età, forse di ogni età. Nonostante ciò, o forse proprio grazie a ciò, credo di avere bene chiaro la differenza tra bene e male, il vero e il falso, il brutto e il bello. Li si riconosce solo quando li si guarda e ci si interroga. Un po’ come per le malattie e il nostro corpo, che si immunizza venendo a contatto con esse e accorgendosi che fanno male. E’ una scelta che abbiamo fatto, quella di poter scegliere, e ora dobbiamo scegliere. Il Signore voleva preservarci da questa conoscenza, neanche lui c’è riuscito. Abbiamo una tendenza a desiderare il proibito. Forse vuol dire essere uomini.

Gli anime sono più avanti
Leggo con un poco di malinconia del declino della Disney. Del fatto che non solo ha introdotto personaggi omosessuali nei suoi cartoni animati, ma ne fa dei protagonisti.
Permettetemi di non essere impressionato. Sul serio, chi vede ancora la roba della Disney? I ragazzi, tutti quanti credo, guardano piuttosto gli anime giapponesi, i cartoni animati che arrivano da laggiù. Se non alla televisione, sul computer o sul cellulare.
Vi do una notizia: l’omosessualità sono anni e anni che è sdoganata in quel contesto. E non solo lei.
Prendiamo ad esempio la serie che ha vinto il premio “Miglior anime originale 2023″, “Lycoris recoil“. In una Tokyo alternativa e appena futuristica la sicurezza è segretamente delegata a delle assassine governative adolescenti, che sopprimono (letteralmente) i criminali e i terroristi nascondendosi dietro l’apparenza di candide liceali. E’ la storia di una di queste assassine, una biondina esuberante che si rifiuta di uccidere, e della compagna che le è stata assegnata, una rigida giustiziera che ha disobbedito agli ordini per salvare una compagna. Bene, a parte una “buona” secondaria e, forse, il cattivo, tutti gli altri protagonisti sembrano o sono omosessuali. Niente di esplicito, tutto sottinteso (o quasi: il loro mentore nero si vede in una scena dividere una stanza con un altro uomo in accappatoio) e non vi alcun aperto riferimento sessuale. La serie è ben animata, ben scritta, con personaggi ottimamente costruiti, anche se non è quel capolavoro. Spero di essermi spiegato: nella stagione che sta terminando, ad esempio, c’è un suo clone fantasy.
Serie tutte femminili o all’opposto tutte maschili, popolate di bellissimi androgini ambigui, sono ovunque, alcune più ammiccanti di altre. In una di quelle migliori di un paio d’anni fa, “Miss Kobayashi’s Dragon“, davvero divertente, ogni personaggio era l’incarnazione di certe inclinazioni. Tutti adorabili. Uno finisce col chiedersi cosa ci sia di strano, ad esempio, in ragazzine delle elementari che sbavano per una loro compagna.
Una puntualizzazione: ci sono serie di tutti i tipi. Uno Spy X Family, per esempio, è in fondo un inno alla famiglia; e ce ne sono innumerevoli, fantasy, a sfondo scolastico o d’ufficio, con “lui” e “lei” regolari o quasi. Non è che per ovunque ci sia quella roba di cui sopra, eh. Ma è talmente normalizzata che quasi non si nota. C’è offerta per tutti, con oltre 40 anime diversi ogni tre mesi.
Non preoccupatevi quindi eccessivamente per la Disney. E’ superata. Sono finiti i tempi di Biancaneve.

Le nuovissime lettere di Berlicche – LXXI – Violenza necessaria
Caro Malacoda,
mi scrivi per chiedere quanta violenza si debba utilizzare nei confronti degli umani.
Innanzi tutto, occorre dire che la violenza è male. Quindi a noi demoni dà soddisfazione usarla: il rischio è lasciarsi pigliare la mano ed esagerare. I tentatori professionisti sanno che essa deve essere usata con parsimonia, se no rischia di essere controproducente.
Siamo creature spirituali: il danno fisico e il dolore materiale a noi non interessano direttamente, ma solo per gli effetti che producono. A parte il gusto che ci dà infliggere sofferenza, lo scopo della violenza può essere duplice: da un lato, spingere vittime e testimoni a domandarsi: “Come mai nessuno mi salva? Come mai il Nemico-che-sta-lassù permette questo?” E dall’altro eliminare fisicamente coloro che si oppongono a noi, scoraggiando altri dall’imitarli o suscitando graditissimi desideri di vendetta.
Il suo uso però deve essere bilanciato. Nel mezzo del massacro, anche nelle persone più distanti dal nostro Nemico celeste il pensiero si volge a lui invocando salvezza. Quante volte coloro che abbiamo torturato hanno ritrovata quella fede che avevano persa. Un martire che mostri la sua nauseante fede ai suoi aguzzini può impressionarli a tal punto da farli pentire, o quantomeno spingerli a domandarsi se effettivamente esista qualcosa che non sia solo ferire e uccidere.
Bisogna sfatare il luogo comune che noi demoni siamo per la brutalità. È assolutamente falso. Se potessimo convincere tutti quanti a odiare il Nemico-che-sta-lassù non ne avremmo mai bisogno, e la useremmo solo per divertimento. Noi siamo per la violenza necessaria: quella che noi adoperiamo verso chi ci ostacola. Se è necessario intervenire con durezza noi lo facciamo, consci del nostro dovere. Lottiamo per la verità e la giustizia, in fondo.
Il Nemico ama ripetere che noi siamo bugiardi, ma non è vero: noi abbiamo la nostra verità, così come la nostra giustizia, che non coincidono con quella del Nemico: ed è per questo che Lui ci perseguita, ci ha cacciato fuori dal suo Cielo e vorrebbe distruggerci. Perseguita noi, capite? Noi che potremmo essere i suoi più fedeli seguaci, se solo si piegasse a riconoscere le nostre ragioni e non fosse troppo orgoglioso per obbedirci.
La nostra verità è che noi abbiamo ragione. La nostra giustizia è che ci venga riconosciuto ciò che è nostro, cioè ogni cosa, e lottiamo per essa fino alla morte di chi ci è d’impiccio. Sappiamo che è differente dalla giustizia che hanno lassù, ma a ognuno il suo. Il nostro scopo è il trionfo di Nostro Padre-che sta-Quaggiù e siamo disposti a sacrificare chiunque per ottenerlo.
A volte qualcuno dei demoni più giovani mi chiede: ma perché non distruggere tutto quanto? Perché non ammazzare ogni umano, quelle deprecabili creazioni celesti? Domande del genere denotano una mancanza di comprensione del nostro scopo. Per quanto lo sterminio possa essere piacevole, non è meglio continuare ad allevare gli umani perché le loro anime corrotte ci diano cibo e nutrimento? Sarebbe come se un contadino mortale distruggesse il campo che coltiva. La nostra fattoria diventa sempre più conveniente di anno in anno, man mano che gli uomini si allontanano dal Nemico seguendo le nostre indicazioni. Saremmo folli a rinunciare al nostro più grande trionfo, il nostro essere padroni del mondo umano, perdendo il raccolto che abbiamo cresciuto. Chi dice poi che proprio lo sterminio non rientri tra i piani celesti? Bisogna usare cautela, perché il Nemico talvolta sembra quasi fare apposta a mettere nei guai quelli a cui tiene. Sia lui che noi siamo ben consapevoli di come la morte del corpo alla fine non sia così importante. Ci ha lasciato Suo Figlio da ammazzare, in fondo, e tutti i suoi discepoli. Per quanto possa essere doloroso ammetterlo, stiamo giocando con lui ad un gioco di cui lui solo sa le regole, in una stanza buia, con le carte che lui stesso distribuisce; e quel maledetto sorride tutto il tempo.
Quella che stiamo combattendo è una guerra. Non è troppo differente da quelle che causiamo tra gli umani per un brandello di terreno o un vantaggio commerciale, ma è immensamente più importante. Essa passa per le definizioni di vita e famiglia: sarà il risultato di questo conflitto che determinerà in parte l’esito della battaglia finale e il nostro dominio sul mondo dei mortali.
La vita! Quell’idea malsana del Nemico che sta Lassù, con cui ha infestato la materia fin dalla Creazione; la famiglia, il ricettacolo in cui i mortali possono immaginare che esista davvero qualcosa che si chiama amore, diverso dal puro e semplice sfruttamento del più forte sul più debole. Due concetti che dobbiamo abolire; di cui gli uomini devono perdere ogni rispetto, fino a odiarli come li odiamo noi.
Odiare la vita prima che sia, cercando in ogni maniera che non sia generata; quando inizia, cercando ogni pretesto per poterla scartare, eliminandola con la violenza più silenziosa e sublime; e dopo, ingannandola, violentandola, vendendola, togliendole speranza e senso.
È una guerra che non possiamo perdere, perché abbiamo un vantaggio oggettivo. Il Nemico deve limitarsi a proteggere, mentre noi possiamo giocare all’attacco e distruggere, impaurire, tormentare, malmenare, arrestare, processare, imprigionare, uccidere. Lui deve convincere, noi possiamo spaventare. Lui deve convertire, noi possiamo minacciare. È uno dei casi in cui la violenza è giusta e va usata, anche perché se i nostri avversari la adoperassero a loro volta diventerebbero i nostri migliori alleati.
L’uso della forza in questo caso è particolarmente adatto a portare avanti le nostre idee, perché abbiamo a che fare con mortali vulnerabili. Non vai con un bambino piccolo in un luogo dove ti insultano e lanciano oggetti. Ci pensi due volte a criticare se ciò mette a rischio la tua famiglia. Non rischierai che i figli ti siano strappati via, o di perdere il lavoro che ti permette di mantenerli. Bruciare le chiese e i centri di accoglienza alla vita ha intento pedagogico; quando poi i giudici e le leggi sono dalla nostra parte e buttano in galera chiunque solo pensa di poterci ostacolare, capirai anche tu che questa ferocia risulta utile, direi appunto necessaria. Noi teniamo ai nostri vermi umani, è il nostro amore verso di loro che si palesa così: siamo disposti a fare del male per loro, anche più del solito. Un concetto differente da quello del Nemico, certo, ma perché la sua definizione dovrebbe essere migliore della nostra?
Per concludere, la nostra violenza è in realtà è un atto d’amore, e quindi deve essere dosata accuratamente. Quando finalmente detteremo tutte le leggi umane, quando non avremo più niente a frenare il nostro slancio nel liberare i mortali dalla prigione di carne che il Nemico ha costruito loro, verrà il momento del raccolto. Allora potremo anche smettere di trattenerci, e faremo loro vedere l’autentica violenza, cosa significa non avere pietà. Non sappiamo neanche cosa voglia dire, pietà, ma conosciamo bene il suo opposto. Lo conosceranno anche loro,
Tuo affezionatissimo zio, arcidemone Berlicche

Dove va ‘sto mondo?
“Don Raffaele, guardi qui!”
“Cosa c’è, picciotto?”
Quel ragazzo stava troppo con il telefonino in mano. Non era sano, pensò Don Raffaele. Alla sua età io già giravo per i negozi a raccogliere il pizzo, altro che chattare con chissà chi.
Il giovane girò l’arnese maledetto in modo che anche lui potesse vedere lo schermo. “Qui c’è un cardinale, uno importante, che sta in America, o in Germania, non si capisce, che dice che a fare i ricchioni non si fa peccato, che si va lo stesso in Paradiso. Hai capito quello?”
“Umf”, fece Don Raffaele. “Quella roba da ricchioni è. Per me anche quello sta un poco di là, eh. Ma che ce ne viene annoi?”
“Don Raffaè, ci pensi bene. Se pure quelli sono salvati senza che debbano pentirsi di quello che fanno, così, pam!, allora lo stesso vale pure per noi”.
“Uè, non dire quella parola, pentito, che mi fa schifo anche solo a sentirla. A me però ‘sta storia mica mi torna. Che minchia stanno a fare i preti, allora? E tutti i ceri che accendo alla Madonna, che, me li posso risparmiare?”
“Ee-eh, ‘sto qua addice cussì. Che è-è la loro natura, mica c’hanno bisogno di cambiare, eppoi c’è la misericordia”.
“Che minchiata. Che magari c’ha ragione, in fondo noi siamo persone per bene, uomini d’onore, mica criminali. Quando sparo a qualcuno è la mia natura, ‘so un po’ Caino. E ci diciamo cussì al giudice, eh, vostro onore, tengo famiglia e c’ho la mia natura?” Ridacchiò. “La prossima volta che ammazzi qualcuno lo guardi negli occhi e gli dici ‘è la mia natura’, quello si caga sotto. Se mi va di metterla intu culo sì e mi va d’ammazzarti no? Macche sono ‘ste discriminazioni”.
“Don Raffaè, siete proprio una sagoma”, disse il ragazzone con tono ammirato.
“Eeeh. Ma dove minchia va ‘sto mondo, se neanche i preti fanno più i preti. Eh, mo’ siamo arrivati, tira fuori quel fetente dal bagagliaio”.

Un filantropo pieno di compassione
Sul tema della filantropia, hanno portato alla mia attenzione un notevolissimo del compianto Arcivescovo bolognese Biffi che spiega davvero bene il punto.
Biffi commenta il famoso racconto dell’Anticristo di Soloviev, che trovate integralmente qui. L’Anticristo, una figura pubblica affascinante e carismatica, viene democraticamente eletto a capo del mondo. Nota Soloviev: “Il nuovo padrone della terra (l’Anticristo) era anzitutto un filantropo pieno di compassione“.
In quegli stessi anni in cui il filosofo scriveva la sua opera, Tolstoj proponeva una religione fatta di alti valori morali. Questi precetti, secondo Tolstoj, vengono certamente da Cristo, con qualche piccola rettifica, ma per essere validi non hanno affatto bisogno dell’esistenza attuale di Gesù Cristo, del Figlio del Dio vivente.
Dice Biffi:
Il cristianesimo ridotto a pura azione umanitaria nei vari campi dell’assistenza, della solidarietà, del filantropismo, della cultura; il messaggio evangelico identificato – guardate che sono tutte cose buone, che sono conseguenze, ma è l’identificazione che colpisce al cuore il cristianesimo – nell’impegno al dialogo tra i popoli e le religioni, nella ricerca del benessere e del progresso, nell’esortazione a rispettare la natura; la Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità (cfr. 1 Tm 3, 15), verrà scambiata per un’organizzazione benefica, estetica, socializzatrice: questa è l’insidia mortale che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di Cristo. (…)
Anche se un cristianesimo «tolstojano» ci renderebbe molto più accettabili nei salotti, nelle aggregazioni sociali e politiche, nelle trasmissioni televisive, noi non possiamo e non dobbiamo rinunciare al cristianesimo di Gesù Cristo, che ha al suo centro lo «scandalo» della croce e la realtà sconvolgente della risurrezione del Signore. Gesù Cristo, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, unico Salvatore dell’uomo, non è «traducibile» in una serie di buoni progetti e di buone ispirazioni, omologabili con la mentalità mondana dominante. (…)
Ci sono dei valori assoluti, o, come dicono i filosofi, trascendentali, quali sono ad esempio il vero, il bene e il bello. Chi li percepisce e li onora e li ama sente, percepisce, onora e ama Gesù Cristo anche se non lo sa, magari anche se si crede ateo, perché nell’essere profondo delle cose Cristo è la verità, è la giustizia, è la bellezza. Poi ci sono valori relativi, o categoriali, valori però, come il culto della solidarietà, l’amore per la pace, il rispetto per la natura, l’atteggiamento di dialogo, etc. Questi valori meritano un giudizio più articolato che preservi la riflessione da ogni ambiguità. Solidarietà, pace, natura, dialogo possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale e informale a Cristo e al suo mistero. Ma se nell’attenzione dell’uomo questi valori si assolutizzano fino a svellersi del tutto dalla loro oggettiva radice, o peggio fino a contrapporsi, come il caso di Tolstoj, all’annuncio del fatto salvifico, allora diventano istigazione all’idolatria e ostacoli sulla strada della salvezza. Allo stesso modo nel cristiano questi stessi valori (solidarietà, pace, natura, dialogo) possono offrire preziosi impulsi all’inveramento di una totale e appassionata adesione a Gesù Signore dell’universo e della storia. Ma se il cristiano, per amore di apertura al mondo e di buon vicinato con tutti, quasi senza avvedersene, stempera sostanzialmente il fatto salvifico nell’esaltazione e nel conseguimento di questi traguardi secondari, allora egli si preclude la connessione personale col Figlio di Dio crocifisso e risorto, consuma a poco a poco il peccato di apostasia e si ritrova alla fine dalla parte dell’Anticristo.
Alle proposte dell’Anticristo di un cristianesimo senza Cristo risponde, nel racconto, lo starets Giovanni:
Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da lui, giacché noi sappiamo che in lui dimora corporalmente la pienezza della Divinità
Se noi non replicassimo allo stesso modo alle lusinghe del mondo, che cristiani saremmo?

Qui il completo intervento di Biffi:
Qui il testo dell’intervento
Fantasmi viventi
Circa quindici anni fa, feci una brutta influenza. La febbre mi salì parecchio poi, per fortuna, scese. Ero praticamente sfebbrato quando mi alzai dal letto e mi recai in cucina a consumare la cena.
Il guaio è che, nelle ore precedenti, avevo bevuto molto poco. Io sento poco i morsi della fame e della sete e quella volta, senza che me ne accorgessi, la febbre mi aveva disidratato. Mi sedetti al tavolo, feci in tempo a dire a mia moglie “tienimi” che crollai come una pera cotta al suolo.
Mi risvegliai una manciata di secondi più tardi, steso sul pavimento, del tutto lucido. Mia moglie stava telefonando alla Croce Rossa. “Lascia stare l’ambulanza”, le comunicai, “Adesso va meglio, mi sono ripreso”. Poi provai ad alzarmi. Uh.
“Ripensandoci, forse è meglio che vengano”, dissi. Non riuscivo a muovere un muscolo.
Dal collo in giù il corpo non rispondeva. Sentivo le sensazioni, ma il comando di muovere un braccio o anche solo un dito si perdeva in qualche punto appena sotto la testa.
Ho fatto il barelliere per tanti anni, l’esperienza di essere “dall’altra parte” mi mancava. Cercavo di rassicurare mia moglie e mio figlio facendo dello spirito, ma dentro di me ero parecchio spaventato. Mi caricarono in ambulanza e mi portarono in ospedale; in sala d’attesa poco per volta i muscoli cominciarono a rispondere nuovamente, e quando il dottore mi visitò stavo di nuovo bene. L’unica osservazione che fece sul mio stato di salute riguardò il leggero strato di ciccia sui miei addominali.
Però quella sensazione di essere staccato dal proprio corpo, costretto come spettatore di sé stesso, non me la scorderò mai. Non oso pensare quanto possa essere orribile per coloro che magari non riescono neppure a parlare, a segnalare la propria coscienza. Ad assistere impotenti a ciò che accade attorno a loro, come fantasmi viventi ma impalpabili. Magari ascoltando la propria condanna a morte senza potere minimamente reagire.
Il nostro essere, il nostro valore, non decresce se non siamo in grado di interagire con la realtà. Siamo ciò che siamo, non cosa possiamo o non possiamo fare. Se un metro di valore ci deve essere, è piuttosto cosa facciamo con ciò che possiamo fare. Se siamo paralizzati per scelta, se ci ritiriamo pur potendo; fantasmi per scelta.

Le macchine dell’impossibile
L’anima dell’Universo è la verità.
Avicenna
Sto pensando seriamente di lasciare il lavoro e aprire una start-up. Finalizzata a sviluppare una mia certa idea.
Vedete, il centro della Terra è come un gigantesco magnete. Energia immensa, a costo zero. La mia ditta si occuperebbe di costruire una macchina che incanali i microflussi che emergono in superfice mediante disaccoppiamento quantistico e li usi per alimentare turbine, motori o quant’altro. Gli esperti ritengono che un dispositivo del genere potrebbe esser utilizzato anche per riscaldare case oppure a bordo di veicoli, come propulsore, in maniera anche più semplice in quanto su un mezzo in movimento si potrebbe approfittare del taglio delle linee di flusso per ottimizzare l’output energetico in maniera semplice ed ergonomica.
L’antica saggezza cinese, con il Feng-Shui e la geomanzia occidentale convergono con la tecnologia più avanzata per realizzare con approccio olistico il sogno dell’energia pulita.
Intelligenze Artificiali appositamente progettate stanno già lavorando ad un prototipo che dimostri come l’energia magnetica terrestre possa essere facilmente utilizzata mediante semplici strumenti. Se avete dei soldi e volete investire sull’azienda del futuro, è il momento.
Ma, voi chiederete, come pensi di realizzare quest’idea praticamente? Oh, rispondo io, la teoria c’è, occorre solo sviluppare ingegneristicamente quanto pensato. Niente di più di un particolare.
E se credete che sia complicato, che sia pericoloso mettere denaro in qualcosa che non si sa se possa essere realizzato praticamente, vi prego di ripensarci.
Prendiamo ad esempio la fusione nucleare. Energia gratis per tutti! Da ragazzino, quaranta e passa anni fa, ero abbonato ad una rivista scientifica. Mi ricordo bene il numero dedicato alla centrale a fusione che di lì a poco avrebbe iniziato a produrre energia a costo quasi zero. Avete idea degli investimenti in questo campo? No? Ci si sarebbe potuti comprare un paio di nazioni. L’anno scorso hanno per la prima volta ottenuto una reazione che produce energia. Un centesimo di quella complessivamente impiegata, ma è sempre un inizio.
O i computer quantistici. L’idea risale agli anni ’60 del secolo scorso. Allora, naturalmente, nessuno aveva idea di come realizzare praticamente un computer quantistico. Oggi abbiamo un gran numero di industrie quotate in borsa con miliardi di capitalizzazione che ci lavorano sopra da decenni. E nessuno ha idea di come realizzare praticamente un computer quantistico. Nessuno ha mai prodotto niente di remotamente utile. Zero.
Vogliamo parlare di nanotecnologie? Di batteri artificiali che possano costruire l’impossibile? Anche qui sono stati investiti capitali immensi, si sono addirittura fatte leggi su ciò che non è mai esistito, ma diciamo che i risultati sono stati molto al di sotto delle aspettative. I più cattivi potrebbero dire che non ci sono stati risultati.
Mi asterrò dallo sparare alle anatre morte e non citerò il cambiamento climatico o la rivoluzione verde, la cui totale mancanza di fondamento e l’insensatezza dei rimedi che si vorrebbero adattare stanno lentamente emergendo per chi è in grado di ragionare. Eppure l’altro giorno la mia banca mi ha chiesto se volevo mettere i miei risparmi in quel campo. Credo che quando la bolla scoppierà gli schizzi faranno molto male ma, nel frattempo, quanti soldi si è fatto chi ci ha puntato su?
Vedete, cari miei, ad un osservatore superficiale può sembrare che gran parte della scienza oggi sia devota, più che a esplorare l’ignoto, a ottenere soldi raccontando una marea di balle. Qualcuno mi potrà ribattere che è sempre stato così: c’era gente che scriveva di calcolo digitale molto prima che i primi computer fosse anche solo ipotizzabili, e di razzi per altri pianeti quando ancora niente di più pesante dell’aria aveva mai volato. Oh, sì, si sogna l’impossibile e magari si finisce per realizzarlo. Qui però il caso è diverso. C’è differenza tra tentare di risolvere praticamente qualcosa e riempire l’aria di paroloni senza aver la più pallida idea di come farlo.
Nel tredicesimo secolo Nasreddin Hodja promise di riuscire a insegnare a leggere al suo asino, e si garantì una sovvenzione decennale dal Sultano a questo scopo. Come prototipo mise briciole di pane tra le pagine di un grosso libro e dimostrò che l’asino le girava con gli zoccoli, un promettente primo passo nella giusta direzione. Quando gli amici gli chiesero come avrebbe proseguito, rispose “Cari amici, in dieci anni morirò io o morirà il Sultano. O, altrimenti, morirà l’asino”.
Nel mio piccolo scrivo fantascienza, e confido che alcune delle idee che mi frullano in testa un giorno troveranno realizzazione pratica. Ma so anche che ci vorrà un pezzo.
E capitali; allora, contribuite?

L’ultimo uomo libero
L’ultimo uomo libero stava spaccando la legna quando arrivarono. Se furono sorpresi di non riuscire a identificarlo con i loro scanner non lo diedero a vedere. D’altra parte sapevano bene chi stavano cercando.
L’uomo con l’ascia smise la sua attività per un attimo, poi scosse la testa e riprese il suo lavoro. “Addirittura”, disse, rivolgendosi al tronco.
Il gruppo di persone in divisa si allargò e fece passare i due che vestivano in borghese. “Davide Venzeran?” Domandò uno dei due.
“Sapete che lo sono”, rispose il boscaiolo senza interrompere l’alzare e abbassare della scure. Accennò con il mento alle scarpe di colui che aveva parlato. “Dev’essere stata dura arrivare fin qui sui sentieri con quelle scarpette da città”.
L’uomo in borgese fece una smorfia. In effetti i piedi gli facevano molto male, e si era anche procurato una storta, ma si riprese subito. “Ai sensi dell’articolo 153 comma due, siamo qui per l’inserimento obbligatorio del safety mark”, annunciò.
Davide li guardò per un attimo, poi riprese il suo lavoro con l’ascia. “Parlate la vostra lingua. E quella cosa ve la potete mettere su per il culo, non voglio quella roba dentro di me”.
“Come penso sappia, è diventato obbligatorio. Non sono più ammesse obiezioni, per la sicurezza sua, nostra e di tutto il paese”.
“No che non lo so. Non ho la televisione, qui. Neanche l’elettricità”.
“Il telefonino, internet…”
“Neanche quella roba lì. Qui proprio non prende, il telefono. Mi ci sono trasferito apposta”. Li guardò. “E’ da quando il telefono mi chiese se volevo sapere dov’ero stato nell’ultimo mese che sapevo sarebbe finita così. C’era la possibilità di farlo; ai potenti, coloro che controllano, conveniva farlo; è stato fatto. Al confronto, le polizie del pensiero comuniste di quando ero piccolo sembrano giochi da asilo. Ogni vostro atto viene monitorato, ogni vostro passo registrato, ogni vostra parola esaminata in cerca di male; almeno, quello che chi vi controlla pensa sia male. No, non lo sapevo della legge, ma sapevo che sarebbe successo prima o poi. Era inevitabile”. Il colpo d’ascia spaccò il tronco in due.
L’uomo in borghese si stava spazientendo. “Bene, adesso lo sa, la legge non ammette ignoranza. E’ obbligatorio da quasi due mesi”.
Venzeran sbuffò. “E’ un pezzo che è obbligatorio. Non puoi comprare, senza quello. Non puoi farti un documento, senza quello. Non puoi guidare, non puoi lavorare. Se non ce l’hai ti insultano. Certo che era obbligatorio anche prima, solo che adesso avete smesso di essere ipocriti. Safety delle mie balle. E’ un modo di controllarci tutti”.
“Signor Venzeran, non pensa che si viva meglio in un mondo dove si identificano subito i criminali, dove non sono possibili le truffe, dove è si riesce a rintracciare sempre una persona che si perde? Dove ogni transazione è facile e automatica? Dove non esistono problemi di sicurezza?”
“Dove chi comanda sa tutto quello che fai?”, ritorse Davide. “Dove non puoi esprimere un’opinione differente perché se no non puoi lavorare, o nutrirti, o curarti? Bel mondo, per i padroni, non certo per i poveracci come me. Andate via, lasciatemi stare. Qui coltivo quello di cui ho bisogno e non faccio male a nessuno. Andate via”.
“Se non avesse qualcosa da nascondere si lascerebbe marchiare. Lei è un egoista, ovviamente, vuole il crimine e il disordine. Perché una persona onesta dovrebbe avere problemi a far sapere dov’è e cosa dice, a meno che non abbia qualcosa da nascondere? Lei è sospetto, molto sospetto. Anzi, criminale. Nessuno vuole avere a che fare con lei. Neanche la sua famiglia”.
Venzeran ebbe un moto d’ira, ma si calmò, e riprese a spaccare legna in silenzio.
L’uomo in borghese si passò le mani sulla faccia. “Non pensa a sua moglie, alle sue figlie? Se ne sono andate perché non sopportavano più di vivere così. Con il mark potrà riabbracciarle”.
Venzeran non rispose.
“Le è chiaro che non possiamo permettere che qualcuno rimanga senza il safety mark? Senza di quello non possiamo sapere dove si trova, o lei dimostrare la sua identità. E’ come se non esistesse, se fosse invisibile”.
“Chiarissimo”.
“Allora, ai sensi della legge…”
Il taser colse Venzeran sul petto, e questi cadde a terra. Quattro carabinieri lo tennero fermo mentre il secondo uomo in borghese si avvicinava con il marchiatore e, velocemente, inseriva il mark nella mano destra del ribelle. Compiuta l’operazione, i militari e il somministratore si ritirarono velocemente, lasciando Davide al suolo. Dopo qualche istante, questi si rimise seduto per terra e si fissò attonito il punto dove era stato iniettato il microchip.
“Visto? Tutto fatto. Adesso, signor Venzeran, ci sarebbe la faccenda delle tasse…”
Con un ruggito, Venzeran afferrò l’ascia che gli era caduta e, prima che qualcuno potesse intervenire, posò la mano sul ceppo e calò la scure.
Rimase così, con il sangue che sfuggiva a zampilli dal moncone, in un silenzio attonito. L’arto reciso giaceva in mezzo alle schegge di legno come un osceno ragno.
“Non dovremmo arrestare l’emorragia, medicarlo, portarlo all’ospedale?” Chiese uno dei carabinieri. “Chi?” replicò l’uomo in borghese. “Io non vedo nessuno”.

Scegli il tuo dio
Mio Signore, (…) ci hai messi nelle mani dei nostri nemici, per aver noi dato gloria ai loro dèi.
Ester 4,17
Marco aprì gli occhi. Dove sono? Si chiese. Poi certo, si disse, sono morto.
Non aveva mai pensato molto al dopo. Anzi, non aveva mai pensato del tutto al dopo. Si era convinto di essere, in una certa maniera, immortale. Anche quando aveva capito che l’auto non sarebbe riuscita a frenare in tempo, il suo pensiero non era stato una preghiera, ma “che sfiga”.
Qualunque idea potesse avere avuto da vivo sul dopo morte, non era la sua attuale esperienza. Era immerso in una sorta di penombra nebbiosa, su una superfice liscia che svaniva in buia foschia dopo pochi passi. Non faceva né caldo né freddo. Non c’erano suoni. Era nudo. Il suo corpo sembrava reale, anzi, più reale di quello che aveva indossato… prima.
Ci mise qualche istante ad accorgersi del piccolo globo rosso luminoso che quietamente l’attendeva dietro le spalle.
“Marco Rezzini?”, disse una voce anonima e piatta che sembrava provenire dalla luce volante. Pareva la voce con cui, anni prima, la sua maestra faceva l’appello in classe. Lo stesso tono annoiato.
“Presente”, rispose suo malgrado.
“Lei è morto”, scandì la voce con il tono di chi ha ripetuto la stessa frase centocinque miliardi di volte. “E ora verrà giudicato per gli atti compiuti in vita. Prego, fornisca la sua fede preferenziale”
Marco deglutì. Possibile? “Cattolico”.
La luce divenne un poco più brillante. “Non corrisponde. Lei non ha mai consciamente compiuto un atto strettamente cattolico nella sua vita. Dichiarazione non valida”. Seguì una breve pausa, mentre Marco scendeva a patti con l’affermazione del globo luminoso. Non aveva tutti i torti. In chiesa c’era stato poche volte, solo per cerimonie di amici e parenti da cui non era riuscito a svicolare. Non ricordava di avere mai pregato. E trovava quello che dicevano i preti delle cazzate senza senso. Ora però doveva ammettere che, forse, un senso dopotutto ce l’avevano avuto.
“Ai sensi della disposizione 40\7167 sul libero arbitrio lei ha diritto a scegliere il metodo di giudizio. Dica uno se vuole rimanere al giudizio cattolico. Dica due se vuole cambiare religione. Dica tre se vuole professarsi ateo. Dica quattro se vuole parlare con un operatore”.
“Quattro”, esclamò Marco.
La luce commutò in giallo. “Qui è Seripindael, parlo dal Paradiso. Come posso aiutarla?”
“Se mi professo ateo, che accade?”
“Viene mandato immediatamente nel posto più lontano da Dio possibile, per rispettare la sua volontà”.
“E questo posto sarebbe?”
“Nella sua lingua credo venga chiamato inferno. Ha altre domande?”
Marco pensò. Inferno, meglio evitare. Il Dio cattolico probabilmente era incazzato con lui, che non l’aveva mai considerato, quindi stessa destinazione. Altre religioni? I musulmani non credevano in paradiso pieno di gnocca? Però a pensarci bene meglio di no, Allah era anche più stretto del Dio cristiano, probabilmente, e pure quelli avevano l’inferno. Budda? Aveva fatto yoga, forse poteva essere una scelta. O magari gli induisti, così poteva reincarnarsi… sì, in una mosca.
“Se scelgo un’altra religione…”
“Verrà giudicato in base ai dettami di quella fede e la sua anima trasferita nel luogo di elezione. Ha altre domande?”
Poteva fare un tentativo. “No, grazie”
La sfera tornò rossa. “Ai sensi della disposizione 40\7167 lei ha diritto a scegliere…”
“Due!”
“Ha deciso di scegliere un’altra religione. Dica uno per scegliere le divinità, entità o i sistemi filosofici che ha più seguito nella sua vita passata. Dica due per stabilire lei la religione di giudizio. Dica tre per tornare indietro”.
Più adeguati? Poteva essere un’idea! Se aveva seguito una divinità senza saperlo magari questa era soddisfatta di lui. Venere, magari. O Bacco. Poteva essere fortunato, dopotutto.
“Uno!”
“Ha scelto di venire giudicato secondo i dettami della o delle divinità, entità o sistemi filosofici più adeguati alla sua vita. Questa scelta è definitiva. Il giudizio comincerà immediatamente”. La sfera di luce sparì.
Appena oltre la nebbia, Marco percepì qualcosa di enorme, che prima non c’era. La foschia cominciò a dissiparsi, rivelando non una sola, ma tre ombre gigantesche che incombevano su di lui.
Quella di destra si fece un poco avanti, rivelandosi. Si vedeva a stento, ma sembrava una persona di mezza età, occhiali scuri, catene d’oro al collo e anelli alle dita, vestiti firmati. Alto dieci metri. Percepì che, al di là delle lenti, niente di umano lo stava guardando.
“Io sono Soldi”, disse.
Marco deglutì.
Il colosso rise, di una risata raschiante come diamanti sul vetro. “In altre epoche ho avuto nomi diversi, ma sempre Soldi sono. E sono soddisfatto di te. Mi hai sempre adorato. Non mi hai diviso con nessuno. Hai lavorato per me. Sì, mi sei piaciuto. Vieni pure nel mio paradiso”.
Trasse dal nulla un fascio di banconote e lo gettò in alto, come coriandoli.
Marco sentì nascere la speranza. Il paradiso dei soldi! Che figata! Vivere l’eternità nel lusso. Aveva fatto la scelta giusta.
Adesso si stava facendo avanti la seconda figura. Se la prima era stata umanoide, la seconda era… diversa. Era difficile distinguerla tra le nebbie, ma sembrava una donna il cui volto si trasformava in continuazione, i capelli cambiavano da lunghi a corti, di colore e foggia, e sul cui corpo fiorivano ogni genere di aperture sconce, di ogni foggia e dimensione. Sfinteri e vulve e bocche si aprivano e si chiudevano tra globi che potevano essere seni oppure glutei oppure testicoli, mentre sordide appendici tentacolari oscillavano come i raggi di un’oscena stella marina.
“Io sono Sesso”, disse una voce passando da un registro tenorile a uno di soprano, “e sei stato a lungo mio schiavo. Ti offro la ricompensa per i tuoi servizi, vieni con me!”
Marco stava quasi per slanciarsi in avanti quando la terza figura fece la sua apparizione. Era un titano muscolare, dagli occhi penetranti e un sorriso sicuro. “E io sono Potere. Mi hai avuto in mente per tutta la tua vita, ogni volta che ti rapportavi con qualcuno, ogni volta che prendevi decisioni. Se rinunciavi a me era solo per cercarmi più intensamente. Sì, tu sei vissuto secondo il mio desiderio. Vieni a me!”
“Vieni a me”, ripeterono insieme i tre colossi.
“Sì, sì, sì!” Gridò Marco.
I tre giganti smisero di muoversi.
Marco, perplesso, si fece avanti, avvicinandosi a loro, rimasti immobili.
Quando vi fu accanto si accorse che non erano esseri viventi. Erano come i pupazzi dei carri delle sfilate di carnevale: cartapesta e stantuffi. Come aveva fatto a scambiarli per vere divinità? Cosa ne ne sarebbe stato di lui?
“Il loro giudizio è valido, e la tua scelta è fatta”, tuonò una voce dalla nebbia. Una figura ancora più grande si stava avvicinando. “Essi erano mie creazioni, tre facce di me. Il loro giudizio è anche il mio, perché sono miei aspetti e miei strumenti. Vieni, mio diletto, guarda il volto del tuo signore, del tuo dio, colui che ami sopra ogni altro”.
Guardò in alto e vide il volto di chi aveva adorato senza rendersene conto, un volto per cui aveva sacrificato tutto e tutti.
Era il suo stesso volto.
Allungò la mano tremante verso l’altissimo simulacro di se stesso, lo sfiorò, lo toccò. Cartapesta. Come avesse dato l’innesco, questa si disfece tra le sua dita e la figura collassò in polvere e cenere che l’avvolse e l’accecò. Quando tornò a vedere, in mezzo alla polvere c’era una figura in piedi. Aveva due corna, ali nere e membranose e puzzava come cose morte. “Scherzavo”, disse. “In realtà è me che hai scelto. Vieni nel regno che tu stesso hai voluto”. Gli sorrise, e aveva troppi denti. “Se ti ricapita, scegli subito ateo. Stessa destinazione, ma si perde meno tempo”.

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Figli di bot…
Il termine bot è la contrazione di robot (lo so, linguisticamente non ha senso, ma portate pazienza) e indica un programma di computer che fa autonomamente certe cose. Raccoglie dati, esplora internet, guida veicoli, fa finta di essere un umano e tante altre cosette. Quei simpatici programmini che conversano con te e si fanno passare per intelligenze, seppure artificiali, sono dei bot. Non fatevi prendere dal panico: come tutti i programmi, un bot fa solo quello che è programmato a fare.
Il punto è, in cosa differiamo dai bot?
Un bot non ha autocoscienza, non sa di essere vivo, anche perché non lo è. Non aspira a conoscere il Mistero, ciò che sta oltre l’orizzonte, il senso dell’esistenza, non lo concepisce neanche il Mistero, non più di una formica che cerca briciole sul pavimento. Il bot non alza la testa. Anche molti uomini, ma non perché non ne siano capaci.
Se il bot produce oggetti artistici, non è perché sa cos’è il bello, ma perché qualcuno che sa cos’è bello lo ha scritto perché faccia così e cosà. Se fa cose brutte, rivolgetevi al suo programmatore.
Se sembra sapere tutto, è perché ha succhiato informazioni da pagine scritte da chi sa. A differenza dell’essere umano, però, non sa dire se sono sensate. Non ha idea del vero e del falso, ingoia tutto, e sforna risposte in base ad un modello probabilistico. Con l’apposito algoritmo fabbricherà falsi che sembrano veri ma che sono tremendamente falsi. Già nel 1966 qualcuno aveva fabbricato un bot che sembrava uno psicologo. I bot di adesso semplicemente hanno un maggiore vocabolario ma la stessa mancanza di senso.
Se gli si facesse leggere solo propaganda dell’Unione Sovietica o della Cina di Mao o Gramsci sarebbe un perfetto comunista, esattamente com’è comunista un bignami del pensiero di Marx. Ma non saprebbe farne una critica, perché non ha idea del mondo. No, avete ragione, questo non è un argomento valido.
Dobbiamo fidarci dei bot per ogni cosa? Dovremo dipendere da loro? No, perché portano all’estrema conclusione ogni errore o idiozia che gli si mette dentro. Fritz Leiber, nel 1962, scrisse un racconto in cui immaginava un computer che giocava a scacchi in un torneo di grandi maestri e non vinceva perché uno di loro individuava un refuso nel libro che era stato usato per istruirlo. Il computer, senza immaginazione, giocava secondo il dato errato e perdeva. L’errore, l’impensato è sempre in agguato; una macchina agisce solo in base a cosa gli umani ci mettono dentro, e voi vi fidate degli uomini?

Una passeggiata nella bellezza
Qualche sera fa, in tre orette scarse,
Ho assistito a una messa cantata, partecipata, con una splendida omelia che mi ha sollevato il cuore
Ho capito, con il cuore e non con il sentimento o il preconcetto, cosa davvero serva la liturgia
Ho conversato con un vescovo e dei sacerdoti che davvero amano Cristo e quindi la sua Chiesa
Ho ascoltato di opere di misericordia a me quasi sconosciute (nonostante siano non distanti da dove abito), e racconti edificanti di santi preti
Ho visto tre suore giovani e belle cantare le lodi del Signore e adorare in ginocchio
Sono stato testimone dello splendore e la bellezza, in edifici e manufatti, che abbiamo ereditato da un tempo in cui a Dio si dava tutto.
Ho ritrovato amici vecchi e nuovi, belle famiglie, tutti con la loro croce e i loro problemi, ma uniti da uno slancio e una gioia che altrove non si trova.
Il nostro guaio, amici cristiani, è che non conosciamo il tesoro che portiamo. Ce ne dimentichiamo, lo ignoriamo, quando dovrebbe essere il nostro più grande vanto, la nostra unica speranza.

Un mondo rosso e blu
Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello.
Mt 5,38-40
Siamo parlando di tanti tanti anni fa, quando ancora non si pensava minimamente che l’Unione Sovietica potesse collassare da un giorno all’altro. C’era allora un gioco per computer di cui non ricordo il nome, ma di cui mi rammento il tema. Il giocatore impersonava il Presidente degli Stati Uniti, e gli venivano presentate crisi in varie parti del mondo. Cambogia, Venezuela, Grecia… Doveva scegliere se fregarsene oppure intervenire, e come. Non era in grado di occuparsi di tutto, quindi doveva decidere quali erano importanti e quali no. Se rinunciava, se cedeva, la nazione passava sotto l’influenza dell’avversario, e si colorava di rosso. Se era l’avversario a cedere, si colorava di blu. Se nessuno dei due cedeva… guerra, fino all’annientamento nucleare reciproco. Morte per tutti, game over.
Il mio amico che possedeva il gioco mi disse che aveva provato a cedere sempre, ritirandosi ogni volta. Il risultato finale era stato un mondo in pace, senza conflitti e guerre, ma colorato ovunque di rosso. E si chiedeva se fosse meglio così.
Un gioco, certo, semplifica molte cose. La stessa osservazione del mio amico sarebbe potuta valere per il caso inverso, con un mondo tutto blu. Per molti versi certo migliore, ma io per gli imperi nutro una certa allergia, siano essi del bene o del male, quando sono loro stessi a deciderne la definizione.
Quando leggo gli inviti evangelici a cedere al prepotente talvolta mi ricordo di quel gioco. La ragione di Stato, la sapienza del mondo, l’idea di libertà, di autodeterminazione, il mio temperamento mi dicono che è follia. Poi vedo i risultati di quella sapienza, e sono massacro e distruzione. E mi domando cosa sia che non riesco a vedere.

Salvarsi la vita
Dal Vangelo secondo Mattia, l’apostolo che non c’era
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “E’ importante che il Figlio dell’Uomo sia bene accolto, piaccia alle persone importanti e abbia una buona copertura mediatica, perché così potrà fare del bene senza ostacoli burocratici o contestazioni. Se infatti fa un bel discorso ma poi la stampa lo travisa, che ne avrà a guadagnare? Molto meglio che la stampa concordi con lui e lui con la stampa, anche se dovrà un po’ adattarsi”.
Poi, a tutti diceva: “Se qualcuno vuol venire dietro a me sia fedele a se stesso, perché la coerenza è importante. Lasci stare le sue preoccupazioni, non cerchi di cambiare, perché tanto noi siamo inclusivi. Chi vorrà salvare la propria vita meglio che butti via la propria croce o vada dallo psicologo, perché ricordate che voi valete. Dovete autoconvincervi che non c’è niente di male in voi: godetevi la vita senza vergogne. Che vantaggio infatti avrà l’uomo se perderà tutto il mondo? Meglio adeguarsi e vivere tranquilli. O che darà l’uomo in cambio della sua tranquillità? Non preoccupatevi, sarete tutti salvi comunque, a meno che non abbiate fatto uso di combustibili fossili, che è il grande peccato che non sarà perdonato”
Al che Pietro lo prese in disparte e gli chiese: “Ma che è questa stampa, e che sono questi combustibili fossili?” E Gesù rispose:…
(il frammento si interrompe bruscamente)

Giuda sono io
Lo dico subito, non è un film tipo quelli che vedete di solito in tv, o al cinema, fitto di effetti speciali e piani sequenza arditi.
“Io sono Giuda”, che potete trovare qui completo, è più un’opera teatrale; densi dialoghi tra due persone, o meglio tra il protagonista e altri quattro, sempre presi uno a uno. Gesù, Pietro , Maria, un fariseo. E naturalmente lui, Giuda.
Si segue una traccia lasciata da Maria Valtorta. Questa mistica è nota per avere scritto (tra il resto) una ponderosa vita di Gesù basata su una rivelazione privata. Sebbene la soprannaturalità dell’opera sia negata dalla Chiesa, che a suo tempo la mise anche all’Indice, tuttavia essa contiene parecchi spunti degni di nota. In mezzo a tutti gli apocrifi e le mistificazioni intellettuali a cui siamo ormai purtroppo abituati rappresenta quasi una boccata d’aria fresca: da prendere con le pinze, ma molto più cattolica di troppe opere contemporanee.
Di notevole in essa c’è certamente la figura di Giuda, così com’è ripresa dallo spettacolo. Seguiamo questo personaggio, di cui nei Vangeli è detto poco, nella sua caduta. Impariamo a conoscerlo nella sua duplicità: all’inizio appare sincero, e forse lo è, ma poco per volta spunta fuori il suo orgoglio (“dove entra l’orgoglio entra il male”, gli viene detto, ma non coglie l’avvertimento) e ci si fa domande sulla ambiguità delle sue motivazioni, sulla menzogna che sembra essere sempre sul suo labbro, rivolta anche verso se stesso.
Rapido a giustificare le sue colpe, dando la colpa alla sua natura o gli altri, rifiuta di lasciare il giudizio a Dio: “Abbiamo bisogno di sbagliare per imparare”, afferma, ma gli viene risposto che “L’innocenza è sapienza, molto di più dell’esperienza del peccato”. Perché il male rende schiavi, imprigiona, e il suo progressivo cedere a questa schiavitù mette i brividi. “Aiutami ad uscire dalla mia morte”, invoca, ma poi respinge l’aiuto, persino quando Cristo si inginocchia davanti a lui e lo supplica di non seguirlo, di non dannarsi, di lasciarsi salvare.
Ma non c’è pentimento, semmai recriminazione.
L’orgoglio di essere giudeo, di avere studiato, di avere le conoscenze “giuste” lo acceca. Si pensa più intelligente; quando Gesù rifiuta i suoi consigli è deluso e inizia a disprezzarlo. Fino a rimproverarlo di avergli rovinato la vita, di averlo illuso per tre anni, fino ad augurargli la morte. “Non mi fai più paura”.
Bisogna lasciarsi colpire, e il colpo fa male. Le giustificazioni di Giuda sono spesso le mie, i rifiuti di Giuda sono spesso i miei. Le sue parole potrei averle dette io; non parliamo dei pensieri. Lui così amato ha rifiutato quell’amore immenso, fino alla sua estrema conclusione. Ma è diverso il Suo amore verso di me? Dio non ti salva se non vuoi, ti lascia la tua dignità di uomo anche se Lo rifiuti. Alla fine una cosa mi appare chiara: io potrei benissimo essere un Giuda della notte prima, con l’ultima scelta ancora da compiere. La Quaresima appena iniziata potrebbe essere per me inutile come furono per lui quelle ultime parole di Cristo, in cui lo chiamò amico. Giuda sono io.
