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Quattro chiacchiere a proposito di libri

Quello che segue è la traccia che avevo buttato giù per la presentazione di stasera del mio nuovo libro. Come potete vedere dalla diretta streaming non l’ho rispettato, ma il risultato è stato lo stesso molto interessante.

Io sono qui stasera con un compito impossibile. Cioè convincervi che vale la pena comprare e leggere i miei libri piuttosto che quelli di un Brandon Sanderson, o una JK Rowling, uno Stephen King.
Perché, diciamocelo chiaramente, il tempo a nostra disposizione è limitato, e quindi non possiamo leggere tutti i libri che vorremmo. Non so voi, ma io a casa ho letteralmente cumuli di volumi che sono lì in attesa che io rivolga loro la mia attenzione. Quando ero giovane avevo un’ora di strada per arrivare a scuola, invece di pernottare in una tenda leggevo sull’autobus quasi un libro al giorno. Oggi… molto meno. Ragione per cui io, come voi, devo fare delle scelte. Perché voi possiate scegliere il mio libro piuttosto che qualche pompatissimo bestseller, devo darvi delle ragioni; l’uomo è un essere ragionevole, prende le decisioni in base a questo e a me piace pensare che i miei lettori siano proprio persone che sanno usare la ragione.
Non è che disdegno chi mi acquista in preda ad un raptus irrefrenabile, sia chiaro; ma amo pensare di avere scritto opere che è bello leggere perché ne hanno per tutti i gusti, dato che si possono interpretare a più livelli.

Il primo livello è quello dell’avventura. Ci sono certamente persone a cui piacciono i tomi filosofici vergati a caratteri fini, e talvolta anch’io sono uno di loro. Ma datemi un’avventura ben scritta, con personaggi delineati bene e interessanti, azioni veloci, misteri e colpi di scena, e potrà capitare che rimanga alzato fino alle tre di notte perché devo assolutamente sapere come va a finire. Il libro “ancora una pagina poi vado”, ecco il mio modello. Prendete l’ultimo uscito, “L’ombra della Minaccia”. E’ diviso in tre parti, “Le nuvole si addensano”, “Correndo sotto la pioggia”, “Il centro della tempesta”. Nella prima costruisco la storia, imposto le premesse, alzo la tensione. Nella seconda le cose precipitano, cominciano a muoversi rapidamente, e arrivati alla terza esplodono letteralmente in faccia. Se siete le persone che, di fronte a una svolta inaspettata, al protagonista che di colpo rovescia il tavolo e le carte, fate un bel sorriso e lanciate un’esclamazione tipo “Siiì!!”, allora i miei libri sono per voi. Non ci si annoia, questo ve lo posso assicurare.

Il secondo livello è quello della trama. Che, nel caso dei miei volumi, non è banale. C’è la trama principale e ci sono sottotrame che si intrecciano, magari rispuntando quando meno lo si aspetta.
Quando ho letto il primo Harry Potter non rimasi tanto colpito dall’ambientazione, o dallo stile, ma dal fatto che, nonostante io abbia letto letteralmente migliaia di volumi, la trama aveva preso direzioni che non avevo previsto. Ecco, si cerca di imparare dai migliori.
I personaggi vanno curati, vanno cresciuti. Non devono essere fatti con lo stampino. Hanno le loro motivazioni per agire. Non vanno trascinati in situazioni illogiche. Quante volte scrivendo mi sono trovato in un punto in cui avrei voluto che uno dei miei personaggi agisse in un certo modo. Ma lo ascoltavo e a volte mi diceva: ma chi me lo fa fare? Sarei stupido ad agire così. Quindi ero costretto a cambiare.
Come il “buono” anche il “cattivo” si muove per una logica, per un bene che magari non è il bene che noi vorremmo. E’ proprio il livello di motivazione, il suo essere autentico nel male che fa dell’avversario una figura indimenticabile e non un burattino. Nei romanzi troverete personaggi che ricorderete, ve l’assicuro.

Ma c’è un livello più profondo, che è ciò che spinge i personaggi ad agire. Troverete punti, all’interno dei libri, che vi chiederanno di prendere posizione. Di domandare a voi stessi, io cosa farei? Vi costringeranno a esaminare le motivazioni dei protagonisti, sia quelli positivi che quelli negativi. A pensare.
Esattamene questo: io volevo scrivere libri che non si limitassero ad essere divertenti, ma facessero anche pensare, si muovessero nella profondità dell’anima. Ho la pretesa di dire che ci sono riuscito.

Torniamo al tema iniziale, perché leggermi. I miei lettori sono stati finora persone che già conoscevano la mia scrittura, magari tramite il mio blog Berlicche, o i miei articoli qui e là. Ora, quando tu pubblichi qualcosa non sai mai bene come verrà accolto. Ogni scarrafone è bello a mamma sua, dice il proverbio, magari ho scritto schifezze e non me ne accorgo. La cosa più bella che mi è capitata è stata venire contattato da persone che conoscevo poco o niente che mi facevano i complimenti. Le recensioni che ho avute, tutte più che lusinghiere, sono state del tutto spontanee e inattese. Perché una pretesa sia validata occorre un’esperienza: l’esperienza dei miei lettori è “molto soddisfatti”.

Per finire, qualcosa dei libri?
Immaginate un mondo con una società di tipo medioevale, dove gli dèi esistono davvero. Come diceva il buon Terry Pratchett, è difficile rimanere atei quando le divinità vanno di notte a spaccare a sassate le finestre di chi non crede. In questo mondo dove gli dèi provvedono al benessere di tutti un ragazzo è costretto a fuggire dal castello di suo padre, che invasori hanno preso d’assalto. Nella fuga è aiutato da un saggio mago, e scappando prende con sé un Talismano in possesso della sua famiglia da generazioni, la Minaccia. Inizio classico. Già dal secondo capitolo, si comincia a capire che le cose sono un attimino più complesse di così, che non sono come sembrano, come uno si attenderebbe dalla fantasy canonica.
Il Tempo degli dei segue il protagonista, Van, nella fuga dai suoi nemici. Ma chi sono i suoi nemici, e quale il suo destino? Si troverà ospite in una città segreta, ballerà con un angelo sotto gli occhi di un dio, sarà attaccato da demoni, esplorerà le micidiali Montagne della Follia, scoprirà chi sono gli dèi e quali sono davvero i suoi desideri.
Il secondo libro è stato per me una sorpresa, nel senso che non pensavo di scriverlo. Il primo si conclude, poteva finire tutto lì. Ma tutti quelli che lo leggevano mi chiedevano, quando il seguito? E così, mio malgrado…
Questa seconda storia riprende la narrazione poco dopo la fine del primo volume. È un libro più cupo, dove gli dèi davvero si rivelano per quello che sono. Se il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe in maniera assoluta, immaginatevi com’è per una divinità. Ci sono massacri, divinità folli che nutrono civiltà malate, tradimenti, battaglie. Il protagonista, insieme con la Lega degli arcangeli ribelli, dovrà cercare di evitare che il Drago si liberi. Cos’è il Drago? Non quello che immaginate.

Quindi, perché leggere me e non qualcuno dei best seller? La risposta c’è, ma dovete comprare il libro per verificarla. Vi assicuro che ne vale la pena.

Mostruosità marine

Parliamo ancora di film. Lo sapete, io ho una predilezione per quelli di animazione. Dei candidati agli Oscar nel genere di quest’anno non conoscevo “Il Mostro dei Mari“; dai trailer sembrava decente, così ieri sera me lo sono guardato.
La vicenda è accattivante: navi di cacciatori di mostri che ricordano i bucanieri solcano l’oceano combattendo una guerra mortale contro mostruose creature marine. Un’orfana sogna di diventare anche lei cacciatrice e si imbarca di nascosto sulla più famosa di queste navi.
E fin qui tutto bene. Il livello tecnico è più che notevole, l’animazione ricca e fluida, i dialoghi spumeggianti, i personaggi ben caratterizzati. Essendo una produzione Netflix c’è l’usuale mischione di razze, ma non infastidisce. Infastidisce invece un po’ il doppiaggio italiano, specie quello del capitano Crow che è disegnato come un tozzo incrocio tra il capitano Achab di melvilliana memoria e il Grinta di John Wayne, ma a cui Diego Abatantuono regala una vocina del tutto inadatta.

I guai cominciano quando i nostri eroi incontrano il “mostro cattivo” Furia Rossa, una sorta di balenona scarlatta che dovrebbe essere il Moby Dick locale. Lo guardo, noto che ha gli occhi del drago “Furia oscura” Sdentato di “Dragon trainer” e comprendo subito il resto della trama. Non mi sbaglio. Quello che poteva essere un buon film di avventura diventa un pippone moralistico sul cattivo re che ha fabbricato la storia dei mostri per suo guadagno, mentre il titano rosso non mangia i bambini, è buono e vuole il bene di tutti.

Ora cos’è rosso, è diffamato dal patriarcato borghese monarchico e capitalistico mentre non vorrebbe altro che la pace nel mondo, ottenibile solo se il pueblo unido insorge contro i tiranni? No, non rispondete.

Ci si lamentava dei film di propaganda del secolo scorso, qui abbiamo un elefante nella stanza che, stranamente, nessuno dei commentatori che ho letto sembra avere notato. E la domanda che mi pongo è, ci è o ci fanno?
E ho anche un secondo dubbio. Nel film non sembrano esserci i consueti ammiccamenti omo, almeno espliciti. Ma una cosa mi inquieta: alla fine i due protagonisti vanno a vivere insieme, in quello che potrebbe essere un idilliaco rapporto padre-figlia. Ma a occhio hanno circa dieci-dodici e venticinque-trent’anni, e il loro battibecco continuo sembra essere più quello tra marito e moglie che altro. Un certo disagio ce l’ho, ma che volete, forse dovrei vivere più rilassato, non farmi venire idee strane ed evitare di pensare troppo, capire troppo, voler comprendere le cose come stanno.

Cinema d’altri tempi

Di tanto in tanto io e mia moglie ci ritagliamo una serata in cui non siamo del tutto storditi dalla fatica e guardiamo un film, sul divano. In genere lei preferisce le ultime uscite, mentre io propongo il recupero di certi classici quasi dimenticati. Perché limitarsi all’ultimo anno, quando puoi spaziare su un secolo di capolavori?
L’ultima volta ho vinto io, e ci siamo visti una di quelle belle commedie musicali hollywoodiane che andavano tanto di moda quando i nostri genitori erano piccoli. Nella fattispecie “Non sparare, baciami!”, del 1953, dove una strepitosa Doris Day interpreta Calamity Jane, la mitica donna pistolero del selvaggio West.

Mi ricordo che nella versione che vidi da ragazzo in TV i numeri musicali erano doppiati – a casa dei miei genitori avevamo anche un vetusto libretto con le parole italiane (“Frusta di più, frusta di più, devi volar!”, da “Deadwood stage“). In quella dell’altra sera le canzoni (una delle quali aveva vinto anche l’Oscar) erano in lingua originale con i sottotitoli in inglese che davano conto di traduzioni spesso edulcorate.
La trama è romanticamente sciocca e improbabile, ma la protagonista oscura tutti gli altri attori con il suo fascino, doti canore e agilità.
Mentre la storia si snodava, pensavo che un film del genere in televisione oggi è impossibile proporlo. I pellirosse vengono descritti come predoni o pezzenti; la donna che piace è quella sexy che si trucca e si veste bene, e deve piacere all’uomo; si esorta a frustare i cavalli, e per di più un paio di personaggi si presentano en travesti e ne odiano ogni momento. Più scorretto di così…

Di tutta quell’energia prorompente, quell’ottimismo da nuova frontiera, oggi non rimane niente. Il Wild Bill Hickok che compare in “Piccolo grande uomo“, di solo 15 anni posteriore, è del tutto diverso; la Doris Day degli anni ’50 non ha già più posto nel mondo nuovo del dopo ’68, meno che meno ora.

Mi rimane l’interrogativo. Se la versione hollywoodiana della cittadina di Deadwood è irrealistica, quella odierna lo è in altro senso? Il film del ’53 dista dalla Calamity Jane storica tanto quanto noi siamo lontani dagli anni di quella pellicola. I sentimenti di coloro che vissero in quell’epoca così remota eppure così vicina ci sono probabilmente preclusi, noi che neanche riusciamo a capire appieno quelli di chi vive nel nostro stesso tempo. Ogni evento del passato è filtrato inevitabilmente dal momento in cui viviamo e dalle nostre idee. Che sarà del nostro presente? Faranno un film su di noi, se tra settant’anni i film esisteranno ancora?

In cerca della libertà

Quando, qualche settimana fa, ho evidenziato come certi anime (cartoni animati) giapponesi abbiano smarcato da un pezzo certe tematiche a dir poco controverse, non volevo certo demonizzarli tutti. Come in ogni opera dell’uomo ci sono i casi positivi e i casi negativi. Non è che uno smette di leggere libri perché ce ne sono di immorali. Semplicemente sceglie quelli giusti.

Un anime che trovo molto apprezzabile è “Vinland saga“. E’ la versione animata di una serie di fumetti (manga) di Makoto Yukimura, lo stesso autore di Planetes, per lungo tempo meritatamente in cima alle classifiche del genere. Se Planetes era ambientato in un realistico futuro prossimo, la vicenda di Vinland saga si svolge a ridosso dell’anno mille nelle terre abitate o invase dai vichinghi. La storia segue la crescita di Thorfinn, il figlio di un forte capo norreno che ha cercato di rinunciare alla violenza. Quando questi viene ucciso in un agguato davanti ai suoi occhi, Thorfinn bambino giura di vendicarsi del cinico capo mercenario che ne ha causato la morte. Catturato dall’uccisore, questi finisce per allevarlo come una sorta di figlio adottivo, rendendolo un combattente micidiale e spietato. Quando anche il condottiero mercenario muore Thorfinn, che si ritrova improvvisamente privato di quello che pensava essere lo scopo della vita e del suo amato\odiato mentore, viene venduto come schiavo.

Finito agli ordini di un signorotto tutto sommato umano, che gli dà la possibilità di riacquistare la libertà coltivando terre strappate alla foresta, Thorfinn vive abulico, dilaniato dai rimorsi e dai fantasmi di coloro che ha ucciso. Poco per volta riacquista coscienza di sé; ma, proprio quando la sua liberazione sembra ormai imminente, il re Canuto mette gli occhi sulle terre dei suoi padroni per finanziare i suoi eserciti…

Se la prima stagione, con Thorfinn bambino e adolescente, era molto buona, la seconda è davvero eccezionale, sia dal punto di vista tecnico che narrativo. Il dettaglio dei disegni è reso in maniera spettacolare dallo studio Mappa, il migliore in questo momento sul mercato. Certi paesaggi tolgono il respiro per la loro bellezza; la psicologia dei personaggi è tratteggiata con maestria. Se nel primo arco narrativo c’era qualche personaggio un po’ sopra le righe, in quest’ultimo della schiavitù tutto è molto più realistico. L’ambientazione è storicamente accurata, pur con qualche licenza; di tanto in tanto qualche residuo di mentalità giapponese traspare quasi inconsciamente.

E’ colto bene il momento storico di passaggio tra il paganesimo e il cristianesimo, tra una mentalità basata sul dominio violento del forte sul debole e una in cui si può anche avere pietà, tra il valore dell’uomo basato solo sulle sue doti di guerriero e l’affermazione che ogni persona ha valore in sè. Emblematica in questo senso una scena in cui Thorfinn ascolta di nascosto, affascinato, il brano del Vangelo “Amate i vostri nemici…” che viene letto all’anziano padre del signore locale.

Potrà colpire qualcuno anche il fatto che la schiavitù non sia stata solo un problema americano o di razza, ma una pratica che nell’antichità coinvolgeva chiunque. Perdere in guerra significava diventare oggetti a completa disposizione del proprio acquirente. Schiavitù che arriva dalla violenza, quindi da quell’oscuro cuore dell’uomo che per cambiare ha bisogno di perdono, ha bisogno di redenzione.
Quello che forse vuole suggerire quest’opera è che si può essere schiavi pur essendo liberi, e liberi pure in schiavitù. Come canta la stupenda ending, “Credo di dover imparare che non c’è libertà senza amore“.

Perché non si dovrebbero scrivere seguiti

Quando ho pubblicato il mio libro “Il tempo degli dei“, un paio di anni fa, non mi aspettavo avrebbe avuto grande successo. Nel mezzo di una pandemia, presso un editore non di primo piano, di quelli che non arrivano alla grande distribuzione in supermercati e autogrill, che non vengono esposti nella vetrina delle librerie del centro e non vengono annunciati in televisione.
Fantasy e fantascienza non sono generi che le case editrici privilegiano qui in Italia, figurarsi un ibrido tra i due. Un autore non più giovane, trasgressivo solo se si guarda a quella che è la mentalità comune, alla sua prima prova da romanziere. Cosa c’è da sperare?

Eppure, eppure. Mi ha fatto davvero piacere la gente che, dopo averlo letto, ne ha regalato copie agli amici; ne ha fatto recensioni entusiaste; mi ha detto “Non pensavo fossi in grado di scrivere così. Sembra un libro vero”. E soprattutto: “Quando il seguito?” Ecco, questa era una domanda che praticamente tutti mi facevano.

Però io non avevo intenzione di scrivere un seguito (subito, almeno).
Perché il libro aveva un bel finale, conclusivo per i protagonisti anche se lasciava qualche interrogativo in sospeso.
Perché un seguito non lo puoi pubblicare se non con la stessa casa editrice, a meno che Hollywood non se lo contenda. Non puoi aspirare ai big.
Perché riuscirai a vendere al massimo tanti volumi quanto il primo della serie. Nessuno parte dal secondo.
E poi, se proprio vuoi continuare, devi avere una storia bella, convincente, che faccia crescere i personaggi e alzi di una tacca l’asticella. Non può andare in discesa.

Capite, di fronte a tutte queste ragioni, alla domanda “quando il seguito” mi limitavo a nicchiare. Vedrò poi.
Poi, una sera, mi sono domandato, pensando al protagonista del primo libro: “E se…”
Così ho buttato giù l’impalcatura della storia che mi si disegnava in mente. Due o tre scene, davvero epiche. Sviluppi inattesi e affascinanti.
L’avete già capito, sono uno stupido. Di fronte a tutte le ottime ragioni per non scrivere un seguito, mi sono lasciato prendere la mano dalla vicenda e me sono trovato uno per le mani.
Chi l’ha letto mi ha confidato che lo trova anche migliore del suo predecessore. Almeno uno dei “contro” l’ho eliminato.

Poco fa mi è arrivata la conferma che hanno finito di stampare la prima edizione. Guardando alla precedente esperienza, tra qualche settimana dovrebbe essere disponibile alla distribuzione. Quando accadrà ve lo farò sapere.
Ci sono alcune vecchie conoscenze, angeli, arcangeli e, naturalmente, dei. Un sacco di dei. Avventura, intrigo, un mondo che si schiude davanti a voi, complesso, misterioso e a tratti davvero oscuro. Mi è riuscito davvero bene, posso dirlo. Spero lo direte anche voi.

Il titolo? E’…

Il Cavaliere Verde Cupo

Essere pieno di meraviglia: la filosofia non ha altro cominciamento che questo
Platone, Teeteto


Ieri sera ho visto il film di un paio di anni fa, “Sir Gawain e il Cavaliere Verde”, di David Lowery con Dev Patel.
La storia racconta di Gawain, nipote di Re Artù, che la sera di Natale, viene sfidato dal gigantesco e misterioso Cavaliere Verde. Questi subirà senza difendersi il colpo che Gawain gli sferrerà ma, esattamente un anno dopo, Gawain dovrà sottomettersi e subire a sua volta un colpo identico. Quando il Cavaliere Verde raccoglie da terra la testa che Gawain gli ha mozzato e gli rammenta l’appuntamento prima di andarsene, il giovane comincia a capire in che guaio si sia cacciato…

Normalmente sopporto a malapena, in un film, le incongruenze storiche, il mischiare elementi di secoli diversi e strutture di pensiero antiche con quelle moderne. In questo caso mi sento di fare un’eccezione, in quanto “Sir Gawain e il Cavaliere Verde” è un’opera molto particolare.
Nella sua versione più famosa è un romanzo in versi allitterati e rimati scritto nel 1300 da un poeta inglese di cui non sappiamo il nome. Possiede poco più di 2500 versi, ed è un capolavoro. Oltre alla bellezza della trama e della scrittura, possiede livelli di profondità differenti e una simmetria interna di cui il romanzo moderno ha perduto il segreto. I personaggi sono ben definiti, le descrizioni di vesti e cacce lussureggianti. L’ambientazione è un medioevo favoloso, non certo quello dell’epoca di Artù, otto secoli prima. Ambientazione che il film mantiene, almeno formalmente, con una certa integrità.

Senonché la storia non è proprio originale. La troviamo, cambiati nomi degli eroi e luoghi, all’interno di praticamente ogni raccolta di miti europei, dall’Islanda fin giù in Turchia. Le radici del mito sono senza dubbio celtiche, ma affondano ancora più in profondità: sue versioni ed echi si possono rintracciare in India, in Cina e persino nei racconti degli indiani d’America. Gli studiosi dibattono se esista un mito originale da cui tutte quante queste storie discendono, risalente con ogni probabilità a parecchie migliaia di anni fa, oppure il tema sia stato sviluppato in modo autonomo dalle varie culture. Capite quindi che, di fronte a un racconto che attraversa i millenni, le incongruenze temporali contano poco.

Quello del film è però un punto di vista diverso, quello sì moderno. Se le descrizioni di luoghi e azioni del romanzo cavalleresco sono rutilanti, nella pellicola tutto è molto più cupo. I paesaggi sono desolati e spettrali, la palette di colori freddi e cupi. Gawain non è più il migliore dei cavalieri, ma un giovane insicuro e scapestrato, che invidia i cavalieri della Tavola Rotonda e si sente indegno di loro. La sfida per lui è un modo di riscattarsi. Lo spettatore contemporaneo fa però fatica a comprendere chi glielo faccia fare, di portare a termine l’impresa superando le molte tentazioni, dato il suo carattere e il fatto che i frequenti riferimenti religiosi dell’originale sono stati espunti o ridotti a macchiette: un Salve Regina recitato malissimo, lo scudo con l’immagine della Madonna calpestato. Il pentangle, la stella a cinque punte che rappresenta la somma delle virtù cavalleresche, è mostrato senza spiegazione alcuna. Nonostante l’abbondantissima presenza di magia e soprannaturale e lo svolgimento quasi onirico dell’azione, lo spirituale è quasi del tutto assente.

L’antico romanzo si concentra sui due temi principali – Il gioco della decapitazione e lo scambio di vittorie con annessa la tentazione. Non si sofferma su altro: la poesia cita appena di passaggio draghi, lupi, orchi incontrati da Gawain nel suo viaggio e dice

Ebbe molte avventure nelle valli, e spesso le vinse,
che non intendo ora rievocare in racconto

vv.2482-83

lasciando il resto all’immaginazione. Nel film invece parecchio spazio è dedicato a episodi ausiliari che lasciano abbastanza perplessi, in cui il protagonista fallisce ripetutamente. Il finale poi differisce alquanto; in un certo senso è quasi l’opposto della sua fonte medioevale. La trama generale del racconto è apparentemente rispettata, ma in realtà rovescia premesse e svolgimento, offrendo una sua storia e un suo senso appiattito sul travaglio psicologico del protagonista. Se il romanzo ha il calore dell’eroismo stemperato dall’umanità, il film è sì acuto e molto ben fotografato e interpretato, ma è deprimente e gelido, svuotato di gioia. Nonostante questo rimane un’opera notevole, che consiglio. Magari non quando siete un po’ giù, o vi cade la testa.

Gli anime sono più avanti

Leggo con un poco di malinconia del declino della Disney. Del fatto che non solo ha introdotto personaggi omosessuali nei suoi cartoni animati, ma ne fa dei protagonisti.
Permettetemi di non essere impressionato. Sul serio, chi vede ancora la roba della Disney? I ragazzi, tutti quanti credo, guardano piuttosto gli anime giapponesi, i cartoni animati che arrivano da laggiù. Se non alla televisione, sul computer o sul cellulare.
Vi do una notizia: l’omosessualità sono anni e anni che è sdoganata in quel contesto. E non solo lei.

Prendiamo ad esempio la serie che ha vinto il premio “Miglior anime originale 2023″, “Lycoris recoil“. In una Tokyo alternativa e appena futuristica la sicurezza è segretamente delegata a delle assassine governative adolescenti, che sopprimono (letteralmente) i criminali e i terroristi nascondendosi dietro l’apparenza di candide liceali. E’ la storia di una di queste assassine, una biondina esuberante che si rifiuta di uccidere, e della compagna che le è stata assegnata, una rigida giustiziera che ha disobbedito agli ordini per salvare una compagna. Bene, a parte una “buona” secondaria e, forse, il cattivo, tutti gli altri protagonisti sembrano o sono omosessuali. Niente di esplicito, tutto sottinteso (o quasi: il loro mentore nero si vede in una scena dividere una stanza con un altro uomo in accappatoio) e non vi alcun aperto riferimento sessuale. La serie è ben animata, ben scritta, con personaggi ottimamente costruiti, anche se non è quel capolavoro. Spero di essermi spiegato: nella stagione che sta terminando, ad esempio, c’è un suo clone fantasy.

Serie tutte femminili o all’opposto tutte maschili, popolate di bellissimi androgini ambigui, sono ovunque, alcune più ammiccanti di altre. In una di quelle migliori di un paio d’anni fa, “Miss Kobayashi’s Dragon“, davvero divertente, ogni personaggio era l’incarnazione di certe inclinazioni. Tutti adorabili. Uno finisce col chiedersi cosa ci sia di strano, ad esempio, in ragazzine delle elementari che sbavano per una loro compagna.

Una puntualizzazione: ci sono serie di tutti i tipi. Uno Spy X Family, per esempio, è in fondo un inno alla famiglia; e ce ne sono innumerevoli, fantasy, a sfondo scolastico o d’ufficio, con “lui” e “lei” regolari o quasi. Non è che per ovunque ci sia quella roba di cui sopra, eh. Ma è talmente normalizzata che quasi non si nota. C’è offerta per tutti, con oltre 40 anime diversi ogni tre mesi.
Non preoccupatevi quindi eccessivamente per la Disney. E’ superata. Sono finiti i tempi di Biancaneve.

Giuda sono io

Lo dico subito, non è un film tipo quelli che vedete di solito in tv, o al cinema, fitto di effetti speciali e piani sequenza arditi.
“Io sono Giuda”, che potete trovare qui completo, è più un’opera teatrale; densi dialoghi tra due persone, o meglio tra il protagonista e altri quattro, sempre presi uno a uno. Gesù, Pietro , Maria, un fariseo. E naturalmente lui, Giuda.

Si segue una traccia lasciata da Maria Valtorta. Questa mistica è nota per avere scritto (tra il resto) una ponderosa vita di Gesù basata su una rivelazione privata. Sebbene la soprannaturalità dell’opera sia negata dalla Chiesa, che a suo tempo la mise anche all’Indice, tuttavia essa contiene parecchi spunti degni di nota. In mezzo a tutti gli apocrifi e le mistificazioni intellettuali a cui siamo ormai purtroppo abituati rappresenta quasi una boccata d’aria fresca: da prendere con le pinze, ma molto più cattolica di troppe opere contemporanee.

Di notevole in essa c’è certamente la figura di Giuda, così com’è ripresa dallo spettacolo. Seguiamo questo personaggio, di cui nei Vangeli è detto poco, nella sua caduta. Impariamo a conoscerlo nella sua duplicità: all’inizio appare sincero, e forse lo è, ma poco per volta spunta fuori il suo orgoglio (“dove entra l’orgoglio entra il male”, gli viene detto, ma non coglie l’avvertimento) e ci si fa domande sulla ambiguità delle sue motivazioni, sulla menzogna che sembra essere sempre sul suo labbro, rivolta anche verso se stesso.

Rapido a giustificare le sue colpe, dando la colpa alla sua natura o gli altri, rifiuta di lasciare il giudizio a Dio: “Abbiamo bisogno di sbagliare per imparare”, afferma, ma gli viene risposto che “L’innocenza è sapienza, molto di più dell’esperienza del peccato”. Perché il male rende schiavi, imprigiona, e il suo progressivo cedere a questa schiavitù mette i brividi. “Aiutami ad uscire dalla mia morte”, invoca, ma poi respinge l’aiuto, persino quando Cristo si inginocchia davanti a lui e lo supplica di non seguirlo, di non dannarsi, di lasciarsi salvare.
Ma non c’è pentimento, semmai recriminazione.

L’orgoglio di essere giudeo, di avere studiato, di avere le conoscenze “giuste” lo acceca. Si pensa più intelligente; quando Gesù rifiuta i suoi consigli è deluso e inizia a disprezzarlo. Fino a rimproverarlo di avergli rovinato la vita, di averlo illuso per tre anni, fino ad augurargli la morte. “Non mi fai più paura”.

Bisogna lasciarsi colpire, e il colpo fa male. Le giustificazioni di Giuda sono spesso le mie, i rifiuti di Giuda sono spesso i miei. Le sue parole potrei averle dette io; non parliamo dei pensieri. Lui così amato ha rifiutato quell’amore immenso, fino alla sua estrema conclusione. Ma è diverso il Suo amore verso di me? Dio non ti salva se non vuoi, ti lascia la tua dignità di uomo anche se Lo rifiuti. Alla fine una cosa mi appare chiara: io potrei benissimo essere un Giuda della notte prima, con l’ultima scelta ancora da compiere. La Quaresima appena iniziata potrebbe essere per me inutile come furono per lui quelle ultime parole di Cristo, in cui lo chiamò amico. Giuda sono io.

L’esca

Solo per capire, per uno che di Sanremo ha visto cinque minuti perché costretto. In quei cinque minuti ho assistito all’esibizione di un cantante senza voce e stile che tentava di riprodurre una famosa canzonetta assieme al suo antico interprete; il quale subito dopo l’ha umiliato intonando la sua parte di strofa con la voce e stile che al primo mancavano. Alla fine dell’applaudita esibizione, il suddetto famoso ha iniziato un pippone politico e il sottoscritto se l’è filata, che se voglio ascoltare musica ho mezzi e pezzi migliori. In ogni caso sermoncini da un cantante no grazie.
Poi, è chiaro, non si può evitare la ricaduta di commenti su ciò che è accaduto laggiù, come una pioggia acida di non dico cosa.

La mia domanda è: ma davvero la sinistra è quella? Fluidi dementi con cachet stratosferici, che vivono straricchi grazie ai proventi dei gonzi, mimano oscenità, distruggono bellezza e ci fanno la morale? Gente che fa da ripetitore ed è d’accordo con i media, il capitale, la politica che domina gran parte del mondo e si atteggia a resistenza?

Forse sono io che sono vecchio, che non riesco a concepire che davvero qualcuno possa dare ascolto a quei buffoni. Vendono i loro figli e l’abolizione della verità, si può pensare sul serio che abbiano a cuore il nostro bene? La loro idiozia, la manipolazione della realtà, le loro ripugnanti contraddizioni mi sembrano impossibili da digerire per chiunque sia dotato di neuroni funzionanti. Dovrebbero tramutare in sterco tutto ciò che toccano, come dei Mida al contrario. Eppure, evidentemente li sottovaluto. Come pesci presi all’amo, tanti li ingoiano e li digeriscono pure.

Mi dicono che a Sanremo c’erano anche canzoni. L’esca.

Stupefacente

Mi segnalano questo trafiletto di cronaca:

Come faceva notare chi l’ha portato alla mia attenzione,

Ma c’è un refuso: “la” seguivano.
Ah questa realtà ostinata, com’è difficile sbarazzarsene.

E’ stupefacente come ci si possa “convincere” a portare avanti pubblicamente ciò che è talmente falso che una mente sana vacilla all’idea. Forse stupefacente è la parola giusta: come la droga l’ideologia porta a vedere ciò che non esiste, come la droga sei costretto ad aumentare sempre più le dosi, come la droga alla fine uccide.

Astrazioni

Talvolta qualcuno di voi lettori mi scrive direttamente. C’è chi mi indica letture interessanti, chi racconta esperienze. Può capitare che alcune di queste mi sollecitino, in un modo o nell’altro, un post. Quella che segue arriva da un lettore di Mestre, che pubblico con il suo permesso.

***

Caro Berlicche,
abbi pazienza se ti rubo un po’ di tempo (so che sei sempre più impegnato)
ti mando queste righe e qualche immagine su un fatto marginale ma che mi sta a cuore perché riguarda l’arte sacra. Volevo inserirlo come commento al post “La bellezza viene prima” o “Questa è l’ora“, ma è troppo lungo (e poi non so inserire le immagini).

Alla fine di giugno, nel giardinetto nord del duomo di piazza Ferretto, sono stati abbattuti (tra qualche protesta) due grandi pini. Al loro posto, pochi giorni fa, è stato collocato “Cristo“, un bronzo del 1968 di Alberto Viani (pagato dal Rotary e all’epoca posto nel cortiletto sud, in posizione poco visibile). Nella stessa piazza esiste già un’altra nota scultura del Viani, godibile per chi ama il codice estetico dell’arte contemporanea.
Forse sbaglio, non capisco, ma ho sempre trovato sgradevole quel “Cristo” senza croce che si mostra come la sagoma vuota di un fantasma con un taglio a sinistra simile a una tasca (tutta l’iconografia mostra la ferita al costato sul lato destro) e la testa annichilita dentro quell’aureola troppo simile a un dischetto volante… Cosa vi vedrà il comune passante in quella forma stravagante? Che messaggio ne ricaverà l’uomo contemporaneo in fuga dalla religione? Una cosa è certa, non lo farà emozionare, non lo potrà mai nemmeno mentalmente portare a cadere in ginocchio…
E forse ha ragione quel certo Elkins quando dice che, da parte dell’arte contemporanea, “non c’è alcuna volontà di escludere la religione. Questa esclusione è intrinseca al pensiero modernista e post-modernista che esclude costituzionalmente la sfera religiosa” ((la “grande” religione, non la generica “spiritualità” che resta sempre attuale). L’artista oggi parla di se stesso, la religione parla di un Altro: le due cose non possono più stare insieme.
Non detesto l’arte moderna o postmoderna, è quest’arte che detesta la religione e quindi detesta me. Un’arte che si occupa di fede solo per seppellirla dissimulandola o ironizzando su di essa …col contributo attivo (anche economico) dei nostri confusi pastori.

***

Io così ho risposto:
“Non sono così brutti a guardarsi (ho visto molto peggio), anche se non ne avrei indovinato tema e titolo in un milione di anni. Ho riletto recentemente quello che Ratzinger diceva della bellezza, e mi pare che quello che manca sia quello strato “intermedio” che è la comprensibilità. Se qualcosa è incomprensibile, anche se bello, in ultima analisi non ci cambia perché non riesce a legarsi con l’esperienza quotidiana. Il dare un titolo che non riusciamo a legare a ciò che vediamo è una alienazione, cioè qualcosa che non riguarda davvero noi, la nostra esperienza. Noi abbiamo bisogno di capire, di ragionare, cioè legare l’eterno al contingente: la ragione per cui Cristo è venuto.”

e la replica del lettore:

E’ vero, si vedono cose ben peggiori, ma ho difficoltà a pensare che l’ “informale”, per quanto bello, possa esprimere il religioso senza alterarne l’essenza. E continuo a ritenere che, con l’entusiasta apertura postconciliare ai modi espressivi della modernità, la Chiesa abbia sottovalutato la serietà di ciò che andava dicendo McLuhan.

Non sono sicuro che McLuhan, cioè che il mezzo è il messaggio, sia stato neanche considerato. A mio avviso il problema è più profondo: cioè che Dio, e di conseguenza Cristo, sono visti come astrazioni, idee alle quali magari aderire, ma non concrete.
Ad astrazione si addice una raffigurazione astratta. Noialtri vecchi, però, preferiamo il pane.

PS: la prima immagine qui sopra in alto è l’altra scultura citata. Il titolo è “Nudo”. Forse così si percepisce meglio cosa significhi la mancanza di concretezza. Non credo che esista persona al mondo in grado di eccitarsi per essa; o, se è per questo, dire cosa raffiguri senza saperlo prima.

Progetto Ave Maria

Qualche tempo fa conversavo con una giovane e preparatissima amica dibattendo le tecniche di scrittura. Discutevamo dell’approccio alla narrazione. “Se vuoi un bell’esempio di come vanno gestiti la prima persona e i flash back leggiti l’ultimo romanzo di Andy Weir”, mi consiglia.
“Weir? Quello de ‘The martian‘?” Probabilmente ricordate il film di Ridley Scott con Matt Damon, abbastanza fedele al volume di cui, come spesso accade, non rende la complessità. “Ti riferisci ad ‘Artemis‘?”
Artemis è la seconda opera di quell’autore, ed è all’altezza della prima. Lei scuote la testa. “No, a ‘Project Hail Mary‘. E’ uscito l’anno scorso”.
“Non lo sapevo. Titolo interessante, lo inserisco nella mia lista di letture…”

Ed è così che, interrompendo la lettura della saga monstre della “Ruota del Tempo” (che non mi sta entusiasmando), mi sono procurato e divorato questa chicca.
Andy Weir scrive fantascienza, ma non fantascienza qualsiasi. Fantascienza hard.
Ehi, pulitevi la testa. “Hard science-fiction” è quella sottobranca del genere dove la scienza realistica, “dura e pura”, è predominante. Molti autori di fantascienza erano e sono piuttosto ignoranti, ma Weir è un ingegnere elettronico che di fisica, chimica e astronomia ne mastica parecchio, e si vede. Forse solo Hal Clement, che io conosca, ha osato scrivere libri così difficili per chi non sia adepto della materia.

Le trame di Weir in genere vertono su un protagonista un po’ asociale che se la cava in situazioni limite trovando risposte grazie alle sue conoscenze tecnico-scientifiche. Che sia Marte, una colonia lunare o un’astronave in un altro sistema solare, le soluzioni ai problemi arrivano grazie a esperimenti e alla osservazione della realtà. Cioè con prove ed errori, fallimenti che aiutano a comprendere meglio, particolari trascurati che rischiano di tradursi in disastri e talvolta lo fanno. I suoi libri dovrebbero essere lettura obbligatoria per chi vede gli scienziati come fatine con la bacchetta magica o saggi sapienti che non sbagliano mai. La scienza è l’esatto contrario di presumere certezze: è metterle in dubbio, in modo da capire di più.

In “Project Hail Mary”, “Progetto Ave Maria”, la posta in gioco è la sopravvivenza stessa dell’umanità. Non entro in spoiler e particolari, dirò solo che, in gergo americano, si indica con “Hail Mary” un tentativo disperato, l’ultimo prima della catastrofe, che intraprendi nonostante sia quasi folle perché sai che non avrai un’altra possibilità. Cosa sia questa catastrofe lo lascio scoprire al lettore interessato, dato che è oggettivamente qualcosa di inusuale. Il libro è appassionante, anche se non semplice per chi voglia capire fino in fondo su cosa stia trafficando il protagonista (che, tra parentesi, si chiama Grace, bollino a chi coglie). Diversi colpi di scena movimentano la narrazione, alcuni un po’ telefonati e uno soprattutto davvero inatteso.
L’unico appunto che si può fare alla trama è che sono presenti una serie di coincidenze abbastanza forzate. Benché l’autore non lo suggerisca neanche remotamente, viene da pensare ai miracoli: ma cos’è il nome del progetto se non una preghiera che si vorrebbe esaudita quando tutto sembra perduto?

La bellezza viene prima

Noi dobbiamo lottare per la bellezza, perché senza bellezza non si vive.
Luigi Giussani

Ho appreso pochi giorni fa che è improvvisamente morto Jung Gi Kim. Chi era costui, vi domanderete. Era un disegnatore coreano. Magari avete visto alcune delle sue opere, in passato, senza conoscerne l’autore. Aveva un tratto bellissimo, zeppo di particolari, una fantasia straboccante. Ma la cosa più impressionante era la maniera in cui disegnava.

Si dice che Mozart componesse le sue opere di getto, senza correzioni. Se è così, questo artista era il Mozart del pennello. Disegnava opere complicatissime a mano libera, un tratto dopo l’altro, praticamente perfette. Per noi mortali, che conosciamo la difficoltà del disegno, è come vedere Bruce Lee che gioca a ping pong con i nunchaku. Qualcosa di troppo incredibile per essere vero. Nel caso di Lee, vero non è. Qui, invece…
Siamo di fronte a qualcosa che ci lascia stupiti. Una bellezza.

Quando troviamo qualcosa bello? Quando entra in consonanza con il nostro io profondo, fa risuonare sentimenti che sono avvitati dentro il nostro essere. Se, come cristiani, consideriamo l’uomo come la più alta opera di Dio, la bellezza in qualche modo è Dio, la sua impronta che ci fa essere quello che siamo. Quant’è bello è il mondo e quanto è grande Dio, disse guardando il cielo una mattina limpida la madre di don Giussani. Il bello è qualcosa che ci può salvare, come afferma Dostoevskij, proprio perché consiste di Lui.

Non stupisce allora la moda che dura ormai da più di un secolo della dissacrazione della bellezza.

L’abitudine corrente di dissacrare la bellezza suggerisce che la gente è consapevole come è sempre stata della presenza di cose sacre. La dissacrazione è un tipo di difesa contro il sacro, un tentativo di distruggere le sue pretese. In presenza delle cose sacre, le nostre vite sono giudicate, e per sfuggire quel giudizio, noi distruggiamo la cosa che sembra accusarci.

Roger Scruton, “Bellezza e dissacrazione”

Che quella che passa per arte, nel nostro passato prossimo e oggi, voglia distruggere la bellezza, implica che la bellezza esiste. Non si tenta di annullare ciò che non esiste. La bellezza è quindi qualcosa che viene prima e quindi, logicamente, continuerà ad esserci anche dopo, perché ineliminabile, perché è vera, perché é uno degli attributi del divino che compone il mondo. Come dice ancora Scruton, “Forse la degenerazione della bellezza nel kitsch arriva precisamente dalla perdita postmoderna della veridicità, e con essa la perdita della direzione morale“.
Se neghiamo che esista la verità neghiamo ciò che è bello, perché la bellezza è vera, e il vero è bello. Anche l’arte diventa la caricatura di se stessa, e incapace di muovere davvero l’animo.

Quando il bello risuona assieme al vero e al giusto scopriamo Dio. In un disegno, in una poesia, in una mano tesa piena d’amore.

Nel mondo dei sogni

L’ho detto altre volte. Sono convinto che, qualche secolo più in là, se ancora esisterà l’umanità, quelle che oggi passano per opere d’arte nelle biennali saranno dimenticate, mentre ancora si leggeranno i fumetti.
Se hanno dato il Nobel a Bob Dylan che scrive canzoni, non vedo perché no. Ce ne sono alcuni che sono dei veri capolavori letterari. Ad esempio, “Sandman”.

E’ un fumetto i cui inizi risalgono a ormai 35 anni fa. Nel folklore anglosassone “sandman”, l’uomo della sabbia, è colui che ti butta sabbia negli occhi e ti fa addormentare. Il protagonista è un Eterno, che è qualcosa di più di un dio, la personificazione di un concetto; nel nostro caso, Sogno. La vicenda parte con il lungo imprigionamento di Morfeo\Sogno da parte di un occultista e gli sforzi successivi del re dei sogni per restaurare il proprio dominio caduto in rovina durante l’assenza forzata.
Sono solo i primi episodi. La storia poi prende il volo con una serie di episodi a volte appena connessi, spesso disturbanti, sempre profondi e scritti con indubbia maestria. L’ideatore della trama è Neil Gaiman (Coraline, Stardust, American Gods), uno dei miei autori preferiti.

Proprio Gaiman è stato, fortunatamente, incaricato di produrre la serie che Netflix ha tratto dai primi due volumi dell’opera. Il risultato, dal punto di vista dello spettatore, è notevole. L’adattamento, alleggerito da alcuni appesantimenti inutili presenti nella versione cartacea, è fedele nell’essenza, sontuoso e ben recitato. Non riesco a sopportare i labbroni dell’interprete di Morfeo, ma questo è un problema mio.

Un problema più generale è invece lo spostamento verso il politicamente corretto.
Praticamente ogni personaggio della serie televisiva che sia in qualche modo positivo è stato mosso rispetto al fumetto di qualche tacca verso – chiamiamolo così – l’inclusivo. Da maschi a femmine; da bianchi a colorati; da etero a gay. Di fatto solo i cattivi e coloro per i quali non si poteva fare proprio niente, tipo Caino e Abele, sono rimasti come in originale. Lo si può vedere come un aiuto per capire a colpo d’occhio lo schieramento dei personaggi, tipo i cappelli bianchi e neri dei cowboy nei film western d’epoca. Se è maschio e ha la carnagione pallida o è cattivo, o è stupido, o entrambi.

Così John Constantine – sì, quel Constantine – è diventata Johanna; la sua sfortunata amante è diventata nera; analoga sorte tocca alla donna che guida l’auto nel quarto episodio, a due di coloro che sono intrappolati nel bar, e pure al bibliotecario del reame dei sogni che con doppio salto diventa pure donna. Il prete del terzo episodio ora è una pretessa; Lucifero non assomiglia più a Bowie ma è femmina e persino Morte, il personaggio più celebre e iconico della serie (forse anche più del suo protagonista) non è più una piccola punk ma un’attrice di colore, come metà di coloro di cui, diciamo, si occupa. E mi fermo ai “Preludi e Notturni”, i primi episodi.

Con i propri personaggi uno può fare quello che vuole. Fossero stati così nell’originale, o se l’operazione fosse stata più discreta, nessuno avrebbe fiatato. Gaiman ha difeso le scelte del casting, e ci mancherebbe; d’altra parte, proprio lui in un suo racconto aveva narrato l’insipienza dei dirigenti degli studios che lo scrittore subisce suo malgrado.
Non mi infastidisce che Morte abbia la pelle nera, mi stupisce che si sia volontariamente rinunciato a una sua immagine profondamente scolpita nell’immaginario di milioni di lettori per seguire un certo schema preconcetto. Ma quello che davvero mi spaventa è la conscia, innegabile spinta che si vuole dare a tutto ciò che è immaginario verso una ideologia che non si trattiene dal cambiare il passato perché vuole impossessarsi del futuro.

In uno degli episodi, un folle vuole usare i sogni per cambiare il mondo a propria immagine, cancellare quelle che per lui sono menzogne e farsi adorare.

“Sarò un monarca saggio e tollerante, che dispensa la giustizia equamente, e che manderà gli incubi a fare a pezzi le menti solo del malvagio e del perverso. O di chiunque non mi piaccia”.

Il risultato è un massacro efferato. La trama risuona, in una certa maniera, con questa realtà. C’è chi vuole impossessarsi dei sogni. L’esperienza insegna che presto diventano incubi.
Se questo è il trattamento riservato alla fantasia, cosa accadrà, cosa accade a ciò che è stato reale?

Cercando Sauron

Non ho ancora visto “Gli anelli del potere”, la nuova serie targata Amazon ambientata nel mondo de “Il Signore degli Anelli” e, dopo avere letto le critiche, non so se lo farò. E’ stata compiuta l’operazione che tutti i sinceri appassionati a ragione temevano; si prende qualcosa di molto amato e lo si riscrive, adattandolo al gusto moderno o, meglio, al gusto che si vorrebbe imporre al mondo. D’accordo, è qualcosa che talvolta in passato è riuscita. Avrebbe potuto funzionare anche stavolta, se non fosse stata per la cattiva mossa di inimicarsi i fan. Jackson li aveva coccolati, consultati, e se l’è cavata nonostante qualche licenza di troppo, anche perché aveva saputo conservare il cuore dell’opera. Non così, pare, per quest’ultimo adattamento. “Stroncato” non rende l’idea.

Qualcuno vi potrà dire che le critiche sono dovute al razzismo. Certamente nani ed elfi di colore non ci acchiappano per niente con la dettagliata storia narrata da Tolkien, ma in fondo sono particolari, che non possono essere usati come scusa per rigettare ogni critica. Ci sarebbero stati metodi più furbi per introdurre epidermidi differenti, ma c’è stata la scelta consapevole di sbattere la cosa in faccia al pubblico. Così come è stata una scelta consapevole quella di virilizzare le donne e rendere gli uomini effeminati. Che pena; la Galadriel originale, una regina in tutto e per tutto, l’ultima tra gli antichi e la più grande tra gli Alti Elfi, aveva molto più fascino, era molto più donna. Meno di quello, non ne vale la pena.

Il problema dell’impostazione che è stata data al racconto è che è il diretto opposto di ciò che “il Signore degli Anelli” voleva comunicare. Frodo vince perché ama, e ama in modo umile, non perché è forte oppure orgoglioso. E’ eroico perché è normale, e non vuole essere un eroe; ma fa quello che deve. Così Aragorn, Gandalf e gli altri indimenticabili personaggi. Questa è una lezione che è in qualche modo inseparabile dal cristianesimo; dal concetto di famiglia, di patria, di bene e di male, e quindi di Dio. Tutte cose che si vorrebbero perdere, fare in maniera che più nessuno le ricordi. Il partire cercando di distruggere questi presupposti è esattamente ciò che farebbero un Sauron o un Saruman.

Gli “Anelli del potere” sono altro da “il Signore degli Anelli”. “Liberamente ispirato da”, si potrebbe dire; discendenti degeneri di antenati nobili, di cui conservano il nome ma non la statura. Dimenticare ciò che è vero: il metodo migliore per rendere l’eccezionale poco interessante, o persino inguardabile. Che spreco; tutti quegli orgogliosi eroi che cercano di trovare e distruggere Sauron, e non si accorgono che Sauron sono loro stessi.

Cerchiamo gli antenati

La mia iniziazione al fantasy avvenne quando lessi “La spada di Shannara”. Avevo, credo, undici anni. Ne restai incantato, dalla trama e dalle illustrazioni dei fratelli Hildebrandt che l’accompagnavano. Quando, qualche tempo dopo, lessi “Il Signore degli Anelli”, restai allibito. “Shannara” era una copia tutto sommato mediocre dell’opera di Tolkien.

Quest’estate, dovendo decidere le mie prossime letture, ho scelto di buttarmi sulla serie de “La ruota del tempo”, un mostro da una ventina di volumi. Ho letto il primo, che poi ho scoperto essere un prequel; meh, niente di eccezionale, buchi nella trama, non proprio eccellente nell’impostazione. Sono quindi passato al secondo, in realtà il primo ad uscire e avere successo, e…
Esatto. Copia mediocre de “Il Signore degli anelli”.

Sia “Shannara” che “la Ruota del Tempo” sono saghe che sono andate avanti per altre dozzine di libri, prendendo in seguito percorsi originali. Ho il serio interrogativo su come abbiano fatto a farsi pubblicare e ad avere tanto successo iniziale. Adesso che “Lord of the rings” è meglio conosciuto, grazie ai film, forse non sarebbe più possibile.

Può darsi però che mi sbagli. In fin dei conti, la rifrittura di temi già visti è una pratica di successo, per così dire. Si pensi a Star Wars VII, o ai mille remake che ci sono inflitti. Quando un tema piace, gli imitatori si moltiplicano. Fai un anime dove il protagonista è uno slime? Da quel momento, slime ovunque. Deprimente.

Nel mio romanzo, quasi all’inizio c’è un “momento Tolkien”, nel quale ho consapevolmente inserito un episodio che può ricordare uno della sua trilogia. Proprio il fatto che ciò che poi accade sia completamente differente sorprende, e avverte il lettore che da queste parti si vuole andare per la propria strada, senza imitare.

Si narra che un certo generale di Napoleone, da lui messo a capo di una nazione, si trovò a tu per tu con l’antica nobiltà del luogo che gli chiese conto delle sue origini plebee. Al che lui rispose: “Voi siete discendenti; io sono un antenato”.
Ecco, cerchiamo gli antenati. Di solito sono più interessanti delle loro copie.

Ancora l’abisso

Vi avevo già segnalato, tempo addietro, un anime particolarmente originale e interessante, “Made in abyss“. Un abisso senza fondo apparente, popolato da creature affascinanti e misteriose, e da cui non si può tornare.

Dopo un lungometraggio a dire il vero per me un poco deludente (ma essenziale per la storia), è ora in corso la seconda stagione, “La città dorata del sole ardente”, che soddisfa appieno le mie aspettative e anche qualcosa di più. I nostri viaggiatori sono arrivati in uno strato molto profondo della voragine, a un villaggio abitato da enigmatiche creature aliene e incomprensibili. La storia dei nostri protagonisti si intreccia con quella di altri antichi viaggiatori che, prima di loro, sono giunti in quel luogo. La difficile interazione tra i loro mondi ha come fulcro ciò che hanno in comune: il desiderio.

La serie è una meditazione, spesso molto forte visivamente e per contenuti, sul valore di ciò che desideriamo. Cosa saremmo disposti a dare in cambio? Un occhio? Una gamba? Metà delle nostre viscere? Cosa siamo disposti a sacrificare, per sopravvivere? Chi?
Uno dei coprotagonisti, guida profetica del suo popolo, uno dei personaggi se vogliamo “buoni” e più affidabili, compie una serie di atti immondi per salvare i suoi compagni. E’ giustificato? E’ perdonabile?
A chi o a che cosa teniamo veramente? Man mano che la storia procede, la domanda si fa sempre più impellente, fino al culmine dell’ottavo episodio in cui si svela il segreto di cosa sia davvero il villaggio; sulle parole finali dell’episodio, “Voglio solo una cosa: non dimenticarmi di lei”, parte la bella sigla finale con il verso “Io mi ricorderò di te”, di cui improvvisamente si comprende il senso.

Come già in precedenza, la serie non è per stomaci deboli, colma di sangue, feci, morte, ma mai gratuiti. Gli orrori più grandi non sono però espliciti, rimangono nascosti in una frase, un accenno, un particolare che si può cogliere o non cogliere. Il livello dei disegni e delle musiche è superlativo, ma è la trama che davvero fa la differenza. Sia a livello di ambientazione, di cura anche delle minime cose, che di contenuto. Può bastare questo dialogo come esempio:

Wazukyan- Vueco, sono sicuro che noi siamo stati chiamati qui. Ricordi la tua bussola? appena l’ho vista, non so perché, ho provato nostalgia di casa.
Vueco- Della patria che ci ha esiliati?
W- L’oggetto della mia nostalgia non era definito da un luogo. Era per qualcosa di impossibile da ottenere, qualcosa di irrecuperabile, qualcosa di irraggiungibile, un anelito vano, ma estremamente forte.
V- Nostalgia di casa… per me quella nostalgia era Ilmiuy.
W- Proprio così. Sono certo che la voragine continuerà, ora e sempre, ad attirare a sé persone pronte ad affrontarla spinte da tale anelito.
V- Di cosa stai parlando? E’ una profezia?
W- Una speranza
.

Cosa sarà questo abisso che ci attira, questa casa di cui si ha nostalgia, che ci fa muovere oltre la nostra tranquillità?

Vorrei foste qui

Sera di lavori e di partenze, la televisione è sintonizzata su uno dei soliti festival estivi della canzone. Ascolto distrattamente mentre finisco i doveri. No, la televisione non la guardo più, ma talvolta mi capita di trovarmi nella stessa sua stanza.
I presentatori pompano il prossimo cantante in lista. Dieci dischi di platino, non sbaglia un colpo, dicono. Il nome non mi dice niente. L’aspetto è di qualcuno che sia sceso a buttare la spazzatura. La canzone…
La canzone sono una dozzina di note ripetute all’infinito da qualcosa di elettronico. La voce è nasale, monotona, il testo banalotto. Ma davvero c’è qualcuno che si entusiasma per questa roba?
Quattro chiacchere, l’annuncio di un tour, il cantante successivo. Che farà pure canzonette, ma è elegante, una voce che levati, una bestia da palco nonostante l’età non verdissima. Al confronto di quello di prima sembra Mozart.

Finisco ciò che devo, posso allontanarmi. Accendo il computer, e d’impulso ricerco un vecchio concerto dei Pink Floyd. Bastano poche battute per capirlo, è musica vera. E poi

Ti hanno fatto barattare
i tuoi eroi per dei fantasmi?
Ceneri calde per alberi?
Aria calda per una brezza fresca?
Fredda comodità per cambiamento?
Hai scambiato
Una parte di comparsa nella guerra
Per un ruolo di protagonista in una gabbia?

da “I whish you were here”

Oh, brividi.
Ed è strano come ci accontentiamo sempre di un di meno, scambiando l’inferno per un paradiso, dimenticando quanto potremmo essere grandi; o forse non lo sappiamo, perché nessuno ce lo ha mai detto, ce l’ha mai cantato.

Did they get you to trade
Your heroes for ghosts?
Hot ashes for trees?
Hot air for a cool breeze?
Cold comfort for change?
Did you exchange
A walk-on part in the war
For a leading role in a cage?

La musica che ci fa ballare

Quando siamo tornati a casa da una serata con amici, sabato sera, mia moglie ha sbirciato le notizie e mi ha detto: “Indovina chi ha vinto l’Eurovision?”
Io ho risposto a colpo sicuro: “L’Ucraina”.

Non ne ho ascoltato una sola canzone, non ne ho guardato un solo minuto. Tutto quello che so è che rappresentava in purezza tutto ciò che il potere cerca di imporre alle menti. Quindi, un tripudio di quella sessualità che un tempo si chiamava “alternativa” e oggi è la noiosa normalità dello spettacolo; e, ovviamente, sostegno a quella guerra fortemente voluta dall’Europa, o meglio, da quelli che dicono “l’Europa siamo noi” e dai loro capi. Non so se ci fossero riferimenti alle altre narrazioni care a chi decide cosa dobbiamo avere caro, tipo il cambiamento climatico o l’aborto, ma devo dire in tutta onestà che non me ne importa niente. Se non c’erano, è solo per una questione di spazio pubblicitario, qual è l’offerta del momento. In fondo era una “manifestazione” gratuita, e si sa che quando qualcosa è gratuito è perché ciò che viene venduto è chi vi partecipa. E’ lo spettatore il bene di consumo.

Un noto giornale scrive:


Non ha vinto la musica? Non è del tutto vero. Sì, c’erano canzoni sicuramente più belle in gara, ma l’#Eurovision è anche questo e anche la musica, quando necessario, diventa questo.
E invita a smetterla con le “inutili polemiche”.
“Quando necessario”, insomma, si giustifica ogni porcheria, il piegare ogni cosa all’ideologia. La toppa in qualche maniera è peggiore del buco: la conferma che non importa niente che la musica sia bella o no. Quella vincente la suonano i potenti, e tutti gli altri ballano.

Che dice l’uccellino?

Elon Musk si è comperato Twitter. A parte questo blog, Twitter è il solo social che pratico con assiduità; il tempo è quello che è. Lo uso più che altro per tenermi al corrente delle cose. Seguo profili che mi sono confacenti, certo, ma ancora di più altri che mi fanno venire l’orticaria solo a sfiorarli. I maggiori quotidiani mondiali, personalità che dicono di avere qualcosa da dire, arte, testate tecniche e scientifiche… il mio scopo non è farmi coccolare da ciò che mi piace, ma farmi venire dubbi, alzare questioni, sentire le altre campane.

D’altra parte, ho bisogno anche di sprazzi di verità, e non solo di sentire il compiacente chiacchericcio del potere. Ed ecco perché sono contento che Musk sia riuscito nel suo intento. Perché Twitter, come gli altri social, era strumento del potere che sistematicamente nasconde e cancella ciò che lo infastidisce. Basta scrivere qualcosa di sgradito ai fedeli boia del pensiero dominante per essere messi da parte, o eliminati del tutto. Tanto per dirne una, erano almeno un paio di mesi che non mi comparivano più i tweet di “Le frasi di Osho“, il noto account satirico. Da ieri sono tornati.

Non è che Musk – che ha sintetizzato efficacemente la sua posizione con l’immagine qui sotto

mi stia particolarmente simpatico: già sapete che diffido dei prìncipi. Devo dire però che è uno spettacolo che mi fa sorridere, vedere le blatte sotto il masso scappare spaventate. Di seguito due tweet, uno di Repubblica e uno de La Stampa.


Quello che si chiama pensiero unico…
“Come?!? Non riusciremo più a bannare chi ci pare e piace? A blaterare di libertà togliendola? Di verità mentendo? Aaaah! Mi stai facendo male…” Guardatevi questo godibilissimo filmato,

la persona disperata perché nel suo social di libero pensiero vogliono permettere il libero pensiero.
Sarà quel che sarà. La guerra è solo agli inizi, e non mi riferisco a quella in Ucraina.

Recensioni di fine stagione

Mi prendo un attimo di sosta dai post più seri per commentare gli anime giapponesi che ho guardato nella stagione invernale 2022 che sta per finire. Come forse sapete, le serie di cartoni animati giapponesi sono distribuite durante l’anno in quattro stagioni che contengono ognuna una dozzina di episodi. La maggior parte di loro ne dura una sola; quelle più sponsorizzate, o di successo, due o più.
Io seguo il primo episodio di quelle che ritengo più interessanti. Se mantengono le aspettative continuo a guardarle, altrimenti le saluto. Se quelle sotto elencate vi paiono tante, sappiate che sono solo una parte delle possibili. E, con una durata di venti minuti a puntata, non rappresentano neanche un grosso impegno per me che non guardo televisione.

La stragrande maggioranza di loro appartiene a filoni standardizzati, con trame e ambientazioni ripetitivi, alcuni dei quali scarto a priori. Non guardo anime di sport\lavoro\arte dove i singoli o una squadra arrivano fino al campionato del mondo; alla Milo e Shira, o Rocky Joe, per intenderci. Lascio da parte anche quelli dove gruppi di ragazzini o ragazzine spesso assai sessualizzati combattono contro mostri, alieni o criminali.
Mi piacciono invece gli isekai, quel genere dove una persona del nostro tempo si ritrova trasportata o reincarnata in un mondo di stile fantasy, di solito con poteri sovrumani. Ma, anche qui, tanta ripetitività.
Tra questi, “Il mondo di Leadale” (6) è un classico stereotipale. Una disabile muore e si reincarna nel suo personaggio di un gioco online, una maga ultrapotente. Target ragazzine preadolescenti; overdose di zuccheri, poche emozioni.
Shikkakumon no Saikyou Kenja (6), “Il saggio più forte con il sigillo più debole“, è un altro cumulo di luoghi comuni con trama banale e improbabile.
Diverso il discorso con Arifureta Shokugyou de Sekai Saikyou (8), alla seconda stagione. Oltre ad essere una serie molto ben animata, la trama è abbastanza originale; ma il suo punto di forza è nel carismatico protagonista, forse l’eroe più “badass” (bastardo, diremmo noi) del momento; un tipo decisamente poco politically correct. E’ un misto tra il pistolero senza nome di Clint Eastwood e Fonzie, uno che ammazza a sangue freddo i cattivi sconfitti e non fa mistero di essere sessualmente attivo con la coprotagonista, davvero un’eccezione nel diffuso moralismo nipponico.
La serie Yashahime, le Principesse Mezzodemoni (6-7), anche lei alla sua seconda stagione, è il proseguimento della ultradecennale saga di Inuyasha con la nuova generazione. Solo per i patiti di Rumiko Takahashi, la leggendaria disegnatrice di Lamù, Ranma e Maison Ikkoku. Ormai la trama è strizzata da un pezzo.
Se qualcuno se lo fosse perso, consiglio Mushoku Tensei (9). E’ la serie – di cui è appena uscito un episodio aggiuntivo – che possiede, nell’ambito isekai, la migliore ambientazione e animazione, e una buona trama. Cade anche lui talvolta nello stereotipo, ma la cura con cui è tratteggiato il mondo in cui finisce il protagonista fa dimenticare il difetto.
Genjitsu Shugi Yuuha no Oukoku Saikenki (6+), Come un eroe realista salva il regno, è l’ultimo isekai che ho seguito quest’inverno. Alla sua seconda stagione, diventa abbastanza stucchevole. Si sperava di meglio.
Il meglio, in effetti, è Tensai Ouji no Akaji Kokka Saisei Jutsu (8), che partiva da premesse identiche: un principe geniale che salva il suo regno dalla bancarotta, facendomi ipotizzare una copia sbiadita del precedente. Ma in questo caso si tratta di un fantasy abbastanza originale e ben scritto, con buona animazione.
Sabikui Bisco (7+) è invece fantascienza scatenata e a tratti demenziale, tra granchi giganti e funghi letali. Originale, buona animazione, visivamente spiazzante.
Tokyo 24th ward (7-) è ancora fantascienza, sul tema del controllo sociale. Ottima animazione, parte bene ma la trama andando avanti stenta a reggere.
Sono usciti gli ultimi due episodi di 86 (7+), seconda stagione; belli, anche se la prima stagione era stata migliore. In un mondo devastato da una guerra globale contro la Legione, composta da miriadi di automi zombie assassini, il tema del razzismo, della morte e dell’amicizia. Vale la pena.
No, non ho ancora visto l’ultima stagione de l'”Attacco dei giganti”…
Platinum end (6), di cui vi avevo scritto, è stata una grossa delusione, specie nel finale. Evitatevela.
Police in a pod (7) sono le avventure a episodi di due poliziotte giapponesi. Non è un capolavoro, ma è divertente, ben animato e offre spunti.
Koroshi ai (6-7), Love to kill, è un noir che non prende mai davvero il volo. Spreca le premesse, ma neanche diventa inguardabile.
Miss Kuroitsu dal laboratorio sviluppo mostri (7-8) è invece la divertentissima parodia delle serie giapponesi dove eroi trasformabili o fatine magiche affrontano organizzazioni malvage che sfornano mostri improbabili. Il tutto è visto dalla parte dei “cattivi”, che non riescono mai a vincere perché hanno problemi di budget e di organizzazione aziendale. La qual cosa, per chi lavora in un’azienda, suona fin troppo realistica.

Per finire, l’autentica sorpresa delle ultime due stagioni, Ranking of kings (10). All’inizio avevo pensato di scartarlo: disegni molto semplici, l’anteprima della trama mi aveva fatto pensare ad una bambinata di buoni sentimenti. Invece si tratta sì di una fiaba, in fondo, ma adulta e con quello che ritengo lo script migliore che abbia mai visto. Ad ogni puntata lo spettatore è costretto letteralmente a ribaltare tutto ciò che pensava di avere capito dalle puntate precedenti. Chi sembrava il ritratto della bontà si rivela avere un lato oscuro, e i cattivi si rivelano avere motivazioni profonde per il loro agire precedente. Se i disegni sono semplici, l’animazione è fluida e, specie nelle ultime puntate, di altissimo livello.

E con questo, finisco… Sta per iniziare la stagione nuova.

Il sentiero e il tempo

Domenica era una bella giornata, tipica di quegli inverni senza nuvole tiepidi di giorno, se stai al sole, e gelidi la notte.
Era l’ideale per gustare la bella passeggiata che dal castello di Valperga si arrampica in mezzo ai boschi sui contrafforti alpini di granito rosa fino al santuario di Belmonte.

Tre secoli fa i frati del santuario pavimentarono l’ampia mulattiera a ciottoli, fecero costruire alti piloni con dipinti i misteri del rosario, e una chiesa dedicata a S.Apollonia a metà per il riposo dei pellegrini. Ora quella pavimentazione in più punti è stata rimossa; dei dipinti davvero belli solo più quattro sono a stento visibili, nonostante il restauro di un paio di decenni fa; e la chiesa è sconsacrata e devastata.

Da sotto l’edificio sembra integro, ma se ti appressi vedi le finestre vuote; nell’interno desolato è rimasto solo l’altare spezzato, e il soffitto dipinto che neanche la mano sacrilega di chi ha imbrattato di simboli satanici e frasi blasfeme le pareti è riuscito a deturpare. E’ scomparso chi aveva pensato quello come un luogo di riposo e di bellezza; sono scomparsi anche coloro per cui era pensato quel luogo. Quella bellezza era in nome dell’eterno; se l’eterno è sostituito dall’effimero, il tempo ne fa scempio.

Pensavo triste che questa è la sorte che potrebbe attendere anche tanto altro di bello che ancora oggi possiamo gustare, domani chissà. Come ha detto Sir Roger Scruton, “La bellezza sta svanendo dal nostro mondo perché viviamo come se non importasse”.

Buone intenzioni

Ho finito di vedere la serie di Netflix “Arcane”, ambientato nel mondo del gioco League of Legends. Raramente le serie o i film legati ai videogiochi valgono qualcosa; in questo caso, si potrebbe quasi parlare di capolavoro. L’animazione, tecnicamente e visivamente, è prodigiosa. Colonna sonora straordinaria; ottima regia; la trama, seppure a tratti prevedibile nei suoi sviluppi, ha una discreta dose di colpi di scena e soluzioni geniali.

Sebbene sia abbastanza facile distinguere i “buoni” dai “cattivi”, la storia è tale per cui alla fine si può giungere a provare empatia, e forse anche simpatia, per assassini psicopatici e boss mafiosi. E’ un’opera dura: si apre con primi piani di cadaveri, e scene di spessore simile non mancano nel corso della narrazione.

Il tema che scorre al di sotto della storia è “il fine giustifica i mezzi?”. E, se la risposta è sì, fino a che punto si possono spingere questi mezzi?
La risposta è complicata dal fatto che, come in altre opere, non esiste una vera autorità morale, non c’è una ragione per la pietà, non esiste qualcuno che possa davvero concedere il perdono per gli errori commessi. In altre parole, non c’è un Dio. I personaggi agiscono spinti dalla loro coscienza, o bussola interiore, e sappiamo bene noi tutti quanto questa possa essere inadeguata. I sensi di colpa possono fare letteralmente impazzire.

Così il governo della città del progresso si “dimentica” dei disgraziati nella città sotterranea al di là del fiume; i ricchi aristocratici disprezzano, ricambiati, la feccia che cerca di arrabattarsi tra i loro rifiuti. Fino a dove si può arrivare per cambiare questa situazione? Se la legge è ingiusta, usare l’illegalità diventa lecito? Un siero, una fonte di energia possono essere usati per salvare o per uccidere; uccidendo anche mentre si cerca di salvare. C’è un limite a quanto si può, si deve conoscere?

Non aspettatevi una risposta chiara. Come in altre opere recenti, c’è una quantità di buone intenzioni che vanno orribilmente storte. In un videogioco poi, come nei libri o nei film, c’è sempre qualcuno che tiene per il cattivo, e sarebbe pessimo marketing indisporlo. Quantomeno la trama spinge a pensare alle conseguenze delle azioni compiute credendosi nel giusto, per rabbia o ambizione – almeno, spinge gli spettatori più consapevoli. Ci si può anche accontentare dell’azione, del disegno, delle musiche; ma è perdersi la parte migliore.