Perdonami

Lo sento talvolta anche dal pulpito: l’essenziale è perdonarsi.

Perdonate me: non sono d’accordo.
Non ci si può perdonare da se stessi, come non ci si può sollevare per aria tirandosi per i capelli. Per potersi perdonare bisognerebbe avere in mano il bene e il male, e quelli sono oltre la nostra possibilità.
Ci si può “perdonare” in due maniere: scusandosi, giustificandosi, dicendo “non è colpa mia”; o negando che quello che si è fatto sia male.
Sono ambedue scelte distruttive, perché distruggono l’Io. Eliminano la nostra libertà di scelta, derubricandoci a succubi delle circostanze. Se non siamo responsabili del nostro male non lo siamo neanche del nostro bene. Allora non c’è salvezza, non c’è niente: siamo animali, o meccanismi, non uomini.

Eppure questo è ciò che il potere dominante, l’aria che tira ci somministra tutti i giorni.
Come fa dire Anthony Burgess ad Alex, il teppista protagonista di “Arancia Meccanica”: “Quelli del governo e i giudici e le scuole non possono ammettere il male perché non possono ammettere l’Io“.
Eliminare il male e la possibilità del perdono è come eliminare la persona, eliminare l’Io, e lasciare solo servi da eventualmente punire.

Se non c’è male e non c’è bene, se non si è responsabili di ciò che accade, se non c’è l’Io non è necessario neanche un Dio; basta uno Stato che imponga delle regole, e che elimini chi non le rispetta. L’ultimo moralismo, leggi morali senza morale. Il totalitarismo definitivo.
Il paradosso è proprio questo: che se si abolisce il bene e il male si ha una morale senza bene e male, e perciò tanto più inumana perché il suo oggetto è allora dettato dal potere che la impone. Per cui è bene ciò che il potere dice che è bene, non ciò che l’uomo vede che è bene.

Nel V secolo c’era un’eresia, quella pelagiana, che riconduceva la salvezza alle sole norme morali. Come diceva Ratzinger già venticinque anni fa,

 (I pelagiani) alla fìne avevano dimenticato che l’uomo non si costruisce da solo, con una moralità completa in se stessa; al contrario, perde il senso del mistero, perde così il perdono e perde altresì il realismo della propria vita. (…) Noi viviamo oggi in un mondo paganizzante, razionalista, dove il mistero è difficilmente accessibile. È un mondo, il nostro, che può accettare, perché evidente, la necessità di leggi morali, di norme morali, ma non può capire che c’è un’espiazione, che c’è Uno che può perdonare e può così ricostruire la completezza della nostra vita. In una parola: rendere accessibile questo fattore nuovo che entra con il perdono nella nostra vita è difficile, mentre è abbastanza facile dire una parola morale all’umanità di oggi.
(J.Ratzinger)

Se ci si perdona da sé, invece di chiedere perdono, se si pensa che il bene e la verità siano costrutti opinabili e intercambiabili diventiamo prigionieri di noi stessi. Torniamo schiavi.
Per fare il male, come fare il bene, occorre essere uomini.
Per essere perdonati occorre essere figli.

psicopatia

Informazioni su Berlicche

Ufficialmente, un diavolo che dà consigli ai giovani demonietti. Avrai letto anche tu "Le Lettere di Berlicche" di C.S. Lewis, vero? Attenzione, però: i diavoli CREDONO in Dio. E questo in particolare svolazza, un po' su un po' giù, ma complessivamente diretto verso l'alto, verso quel cielo di cui ha nostalgia.

Pubblicato il 7 giugno 2016 su meditabondazioni, tra lassù e quaggiù. Aggiungi ai preferiti il collegamento . 13 commenti.

  1. Quel perdonarsi che senti dal pulpito non va forse inteso e collocato “dopo aver ricevuto l’assoluzione in confessionale”?
    Come “accettare di essere stati perdonati e farlo a nostra volta”?

    Perchè esiste la tentazione di non farlo
    Ed è un problema

  2. xBri: purtroppo, no.

  3. Cavaliere di San Michele

    Comunque a me pare che quel che dice Bri sia vero, ma è solo un rafforzamento della tesi di Berlicche.

    Mi spiego: il mio vecchio parroco, a catechismo, raccontava delle numerose volte in cui aveva sentito le stesse donne confessare il peccato di aborto. Alla domanda se si trattasse di un nuovo peccato, rispondevano di no, che era sempre quello di tot tempo prima. Al che lui ripeteva loro che ricordava benissimo di averne già ascoltato la confessione e dato l’assoluzione, e non era necessario ripetere l’una e l’altra. Niente, non c’era verso: alla confessione successiva, di nuovo lì.
    Non potevano credere al perdono di Dio perché non si erano perdonate loro.
    E questa, ci diceva il parroco, non è umiltà, ma è la superbia di Giuda, che non accetta di aver sbagliato, che non si pente realmente come Pietro (che piange amaramente sui suoi peccati dopo aver sentito su di sé lo sguardo misericordioso di Cristo), ma cerca di rimediare a modo suo, e non riuscendoci, dispera del perdono e si uccide.
    Avere come unico metro di misericordia la propria idea, sia per un estremo che per l’altro.
    Il peccato contro lo Spirito Santo: presunzione di salvarsi senza meriti e/o disperare della misericordia di Dio, perché la si è resa più piccola della propria.

  4. x Cavaliere e Bri: Certo che la tentazione esiste. Sul “perdonare a nostra volta” Cristo è bello esplicito, anche nel Padre Nostro: saremo perdonati nella misura in cui noi perdoneremo; e non possiamo perdonare se non abbiamo chiaro cosa perdonare.
    Sul disperare della misericordia, sì, può esserci la tentazione. Ritenersi “troppo peccatore per”. Ma, ancora una volta, non è un perdonarsi, è accettare che il perdono ci sia stato. La differenza tra una sana accettazione di cosa si è, peccatori (che non è perdonarsi) e uno psicologismo.

    Parlando del perdono, questo annullarsi della colpa è bene descritto da Manzoni, parlando dell’Innominato o, in maniera anche migliore, nel Miguel Manara di Milosz:
    “Io sono Mañara. E colui che amo mi dice: queste cose non sono mai state. Se ha rubato, se ha ucciso: che queste cose non siano mai state! Lui solo è”.

  5. “Non ci si può perdonare da se stessi”, come hai spiegato molto bene anche nei commenti al post precedente: “quale potere hai tu di perdonarti?… Può perdonarti solo chi ha potere su quel male e tutto il resto.” Lo capivano bene quelli che si interrogavano sul potere di dire “ti sono rimessi i peccati”. E la riprova è nel fatto che possiamo perdonare gli altri, ma limitatamente a quanto ci compete (p.e., se qualcuno viene ucciso, i familiari possono perdonare il dolore inflitto a loro, non la morte dell’uomo).
    Non dubito nemmeno che il perdono si amministri nella confessione sacramentale, tuttavia con la confessione si possono avere alcuni problemi insormontabili (almeno io ne ho qualcuno). Per quello indicato da Bri e Cavaliere – se non ti “senti” perdonato vorrebbe dire che “non ti sei perdonato tu” (anche se accade per peccati “ordinari” come per quelli più gravi?) – l’ho sentito dire spesso anch’io, ma propendevo a pensare si trattasse più semplicemente di insufficienza e inadeguatezza di fede. Tu, se ho capito, proponi una terza spiegazione: non ti sei pentito (così anche nel post a seguire). Ahi, comunque dalla padella nella brace.

  6. Grazie per le riflessioni a Berlicche, Cavaliere e se&ma

    Ne aggiungo una: in tema io mi sento sia l’adultera che uno di quelli che l’accompagna di fronte a Gesù. L’importante è che dal confessionale esca per primo il Bri che teneva le pietre in mano (volutamente interpretabile in modo duplice come pietre per il mio stesso peccato o per le pagliuzze altrui),

    In merito al “disperare della misericordia” devo dire che io piuttosto intendevo il non perdonarsi non tanto come disperazione (che pure è chiaramente una possibilità) quanto come una più banale non sufficiente comprensione di come funzioni la misericordia. Le donne dell’esempio di Cavaliere che tornano a confessare lo stesso peccato lo fanno perchè disperano del perdono o perchè non hanno capito di essere state perdonate. E in entrambi i casi, il perdono si è compiuto o no? Il sacramento della confessione è valido o no? E a prescindere, anche a fronte di quello psicologismo di cui parli, han lasciato cadere le pietre da lanciare verso se stesse o no?

  7. Temo che il perdono non sia accettato, e la riprova è che non ne hai gli effetti benefici. In un certo senso anche questo è persistere nel peccato.
    Ed è molto insidioso, perché apparentemente, formalmente, tu saresti a posto: sei confessato, assolto. Ma non lo sei, perché in fondo dici “non è vero”.

  8. Quel che dici quadra, ed è sicuramente quel che direbbero molti sacerdoti, ma ci sono anche quelli che ti rassicurano che per questo Dio ti dà il perdono attraverso un ministro: “perché altrimenti chi lo attesterebbe oggettivamente?” Il sentimento personale non sarebbe affidabile… E questo (forse) è un altro dei problemi che si possono avere con la confessione: la certezza di avere giudizi diversi da sacerdoti diversi.

  9. @se&ma
    Se ci si accosta con la convinzione che dal confessore verrà comunque quanto di “meglio” per noi (e non quanto di nostro gradimento) il problema del giudizio diverso è un non problema.
    Giudizi diversi, percorsi diversi, identica meta.

    @berlicche
    La penso come te. Ma giocando a provocare (prima me stesso, eh) ti butto lì un …
    Ma tu cosa oseresti pensare che possa farne il Signore di queste anime psicologicamente afflitte, di solitudine povere, magari ignoranti, probabilmente inconsapevoli, che pur non credono al perdono ricevuto. Non gli perdonerà anche questo?

  10. Eh, Bri, il problema è sempre la libertà: il Signore non può salvarti contro la tua stessa volontà…

    xSe&ma: la nostra salvezza passa sempre attraverso altri uomini. E’ il metodo di Dio; e forse proprio la differenza di giudizi consente a tutti di poter trovare la maniera di salvarsi.

  11. Sai, questi a me sembran più casi di mancanza che di mancanza di volontà

  12. @Bri: se io avessi abortito volontariamente, presumo sarei fra coloro che in confessione tornano sempre sul fatto. Quindi, raccogliendo la provocazione – da anima afflitta povera ignorante e inconsapevole ad anima lieta, ricca e accompagnata, istruita e consapevole – forse sopra abbiamo messo insieme un po’ troppe cose:
    1. una cosa è credere o meno razionalmente che nella confessione si amministri il perdono di Dio
    2. una cosa è “sentirsi” o meno, uscendo dal confessionale, in pace, sereni, lieti, amati, rassegnati ai lutti e alle perdite, liberati da sensi di colpa, vizi o passioni. Fino a che punto si devono usare sentimenti e stati d’animo come metro nella vita di fede? Mi sembra che la testimonianza del Vangelo e dei santi vada quasi tutta in questa direzione: non solo amore, ma letizia, speranza, pace, ardore o zelo, contraddistinguono il cristiano. Però qualcosa puoi trovare a conforto anche di afflitti e/o aridi. In tutta franchezza io me lo chiedo e non lo so, se ogni volta che esco tutt’altro che tranquilla da un confessionale, sia stata manchevole la mia disposizione, al punto di rendere inefficace il sacramento (scusa, non ricordo se si può dire così), oppure se tutto è da imputare agli incorreggibili guasti e tare del mio carattere. Così resto senza sapere se debba considerarmi “a posto”, come dice Berlicche, o meno (con ciò chiarisco il tono del mio ultimo commento che poteva sembrare un giudizio rivolto ad altri) e finisco per desistere sia dalla comunione sia da una nuova confessione.
    3. una terza diversa cosa sarebbe il disperare non di sé ma della misericordia divina, e una quarta che quest’ultima disperazione offenda Dio più di ogni altro peccato. Disperare della salvezza è, a norma di catechismo, uno dei sei peccati contro lo Spirito. Però, se è lecito esprimere una opinione personale a fronte del magistero della Chiesa, questa “diffrazione” del peccato mi lascia qualche perplessità: praticamente è lo spettro di una casistica in cui vengono a confluire l’incredulità e tutti i peccati in genere (certo, se in quanto giungano all’impenitenza finale intesa – come per lo più si intende oggi – come deliberato estremo rifiuto di Dio e non come morte improvvisa, ha un senso). Rileggendo il passo del Vangelo a me sembrerebbe che il peccato contro lo Spirito sia molto precisamente uno, quello luciferino per eccellenza di invidia della grazia, che consiste nel chiamare scientemente male il bene, non volendolo per sé né che vi accedano gli altri.

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